La scuola, oggi, non può essere distratta di fronte al contesto mondiale. C’è, invece, chi è rimasto, non solo distratto, ma ha volutamente chiuso gli occhi, ormai da troppo tempo, di fronte alla scuola, agli alunni, agli insegnanti e alle famiglie.
Partiamo dall’ultimo e più eclatante esempio: per il nostro governo, l’atto di chiudere o riaprire le scuole è stato solo una conseguenza della decisione di aprire o chiudere le attività produttive, come se l’educazione non avesse nessuna priorità o, meglio, nessun guadagno immediato. Davvero ci siamo lasciati convincere che la chiusura delle scuole sia a costo zero? Non abbiamo sperimentato già abbastanza quanto abbiamo perso in termini di umanità, relazioni, conoscenza e condivisione, solo per citarne alcuni? Non abbiamo visto accentuarsi e incrementarsi le disuguaglianze che già troviamo sui banchi?
Ancora una volta, uno Stato inefficace ha costretto i suoi cittadini a dover scegliere tra due dei diritti fondamentali della persona, che sembrava non potessero coesistere al medesimo tempo: il diritto alla salute o il diritto allo studio?
Una volta assodato che, nelle scuole, le disposizioni per fare fronte a questa pandemia sono state messe in atto in modo efficace, era forse necessario che la scuola si preoccupasse anche di colmare la distanza con azioni educative, doposcuola, proposte di lavoro didattico in strutture e luoghi di incontro, ovviamente nei limiti consentiti.
Ancora una volta, con la didattica a distanza è stata sacrificata la scuola, come se questa importante decisione non abbia avuto alcuna conseguenza. Certo sì è ritornati alla vecchia “lezione frontale”, al nozionismo, abbiamo “dato una lezione” ai nostri studenti, ma non abbiamo “fatto scuola”.
La scuola (quella italiana, per lo meno) continua ad avere due problemi fondamentali: è, innanzitutto, e inverosimilmente, una scuola non democratica, che boccia ed esclude i poveri. È, infatti, una scuola che allarga le disuguaglianze e che è diventata terreno di competizione, invece che di cooperazione. Le bocciature e gli elevati tassi di dispersione scolastica, che riguardano in larga misura studenti di bassa estrazione sociale, costituiscono la punta di un iceberg fatto di disinteresse per gli studenti e di apprendimenti che non rispondono alla domanda di realizzazione di un giovane.
In secondo luogo, la scuola vive ancora di un tipo di insegnamento che si concentra sul nozionismo e prescinde dalla persona. La scuola non deve soltanto istruire, ma anche e soprattutto educare, cioè avere a che fare con la vita dei bambini e ragazzi, delle loro famiglie e del loro rapporto con il mondo. Non può essere staccata dalla loro vita!
Crediamo, quindi, che l’educazione non possa prescindere da una presenza, da un rapporto, perché è la trasmissione di un’esperienza di una persona a un’altra. È una trasmissione di umanità, che coinvolge in primis l’educatore (sia esso l’insegnante, il dirigente, l’educatore, il genitore).
Occorre dare, perciò, maggior credito all’educatore, riqualificare il suo lavoro; occorre valorizzare il modo di lavorare di quegli insegnanti che riescono ad essere per i ragazzi “un’autorità”, cioè una persona la cui vicinanza faccia sentire il giovane più grande, più adulto e più libero. Occorre sostenere quegli educatori che lavorano per rendere le conoscenze dei giovani significative e critiche. Occorre promuovere quelle azioni educative che aiutino i giovani a prendere scelte libere: scambi culturali, progetti comuni che educhino al lavoro in comunità, momenti di dialogo sul senso della realtà che i ragazzi osservano e studiano. Queste sono solo alcune delle esperienze che devono essere sostenute e tutelate, oggi più che mai!
La scuola non è una start-up. La conoscenza non può essere ridotta a delle competenze da attivare sul mercato del lavoro. Non dimentichiamolo: la conoscenza è, prima di tutto, un incontro.