Saturday 31 January 2015

Tempi bui: auri sacra fames


Per introdurre il tema di Tonalestate 2011, inizio dal termine massacro, la cui etimologia è dubbia e multiple. Probabilmente, viene da massàcre, termine francese del XIII secolo che attinge dal latino barbarico mazàcrium, il quale, forse, deriva dalla fusione del latino sacràre (immolare agli dei) e il provenzale massar, che significa colpire. Per altri, deriva da scaramàxus, che è il coltello usato per squarciare gli animali. In araldica, indica la testa di bue o di cervo scarnificata e appesa (in coppia) alle pareti di un cacciatore. Massacro è dunque una parola che indica un’azione molto violenta contro una vittima, ed è poi diventata sinonimo del termine strage (dal latino stratus, abbattuto, steso al suolo), cioè uccisione di più persone stese al suolo, abbattute, perché non si difendono o si difendono male.

Friday 30 January 2015

Armata Rossa P.F.L.P. - Dichiarazione Della Guerra Mondiale

Un film di Masao Adachi e Koji Wakamatsu. Giappone 1971.

Film manifesto dell'Armata Rossa Giapponese, gruppo comunista rivoluzionario nato in Giappone dal movimento studentesco e dall'amicizia politica con il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina.
Wakamatsu, intellettuale di punta della nuova sinistra dell'epoca, gira uno splendido documentario sulla situazione politica mediorientale tra dichiarazione di guerra al capitalismo mondiale e riaffermazione della necessità di una rivoluzione a metà tra il maoismo e le lotte di liberazione territoriali, Palestina in testa. Girato in clandestinità nel Libano.


This is the manifesto about the japanese Red Army, revolutionary communist group, born in Japan from the students movement and from the relationship with the Popular Front for Liberation of Palestine. Wakamatsu, intellectual peak in the new left of that period, films a great documentary about the middle-east politics situation, between the declaration of war to the world capitalism and the reaffirmation of the needing of a revolution, form maoism to territorial liberation struggles, at first Palestine. It was filmed underground in Liban.

Thursday 29 January 2015

Maestra a 10 anni, in Libano


Ha solo dieci anni, ma è già maestra, non per titolo, ma per vocazione. Insegna ad altri piccoli rifugiati insieme a lei, in un campo libanese: si chiama Baraa Antar, la piccola profuga, maestra a dieci anni, che vive con la famiglia nel campo di Ketermaya, nella regione dello Chouf, a sud di Beirut, e la sua scuola è all’ombra di una pineta nei pressi del campo e la cattedra è un tavolino, su cui poggia una piccola lavagna magnetica, mentre i bambini usano delle pietre per sedersi.

Wednesday 28 January 2015

HISTORY PASSANGER



Une partie des 2500 portraits de jeunes Juifs déportes de France pendant la seconde guerre mondiale, exposes depuis 2005 au mémorial de la Shoah à Paris.

Tuesday 27 January 2015

Troppo da ricordare...


"Dal 9 dicembre 1948, quando le Nazioni Unite adottarono la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, il termine genocidio equivale al male assoluto, alle atrocità di massa contro civili inermi. Coniata nel 1944 dal giurista polacco Raphael Lemkin, la parola ha conosciuto un crescente consenso internazionale.
Pertanto, si parla di "genocidio" a proposito di quasi tutti i più sanguinosi conflitti della seconda metà del XX secolo: dalla Cambogia, alla Cecenia, compresi Burundi, Ruanda, Guatemala, Colombia, Iraq, Bosnia, Etiopia, senza dimenticare il Darfur... e così via.

Giorno della memoria 2015

“Prima di tutto, vennero a prendere gli zingari;
e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi, vennero a prendere gli ebrei;
e stetti zitto, perché mi stavano antipatici.
Poi, vennero a prendere gli omosessuali;
e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi, vennero a prendere i comunisti;
e non dissi nulla, perché non ero comunista.
Un giorno, vennero a prendere me;
e non c’era rimasto nessuno a protestare.”
(Bertold Brecht, Berlino, 1932)

Primero, vinieron por los gitanos;
y me alegré, porque robaban.
Después, vinieron por los judíos;
y guardé silencio, porque me eran antipáticos.
Luego, vinieron por los homosexuales;
y sentí alivio, porque me fastidiaban.
Más tarde, vinieron por los comunistas;
y no dije nada, porque yo no era comunista.
Un día, vinieron por mi; y ya no había nadie que pudiera protestar.
(Bertold Brecht, Berlin, 1932)

“Tout d’abord ils vinrent chercher les gitans
et j’étais content car ils volaient.
Après ils vinrent prendre les juifs
et je me tus car ils m’étaient antipathiques.
Puis ils vinrent chercher les homosexuels
et je fus soulagé parce qu’ils me dérangeaient.
Ensuite ils vinrent prendre les communistes
et je ne dis rien parce que je n’étais pas communiste.
Un jour ils vinrent me chercher
et il n’y eu plus personne pour protester.”
(Bertold Brecht, Berlin, 1932)

First they came for the gypsies,
and I enjoyed, because they had been pilfering.
Then they came for the Jews,
and I didn’t speak out because I disliked them.
Then, they came for homosexuals,
and I felt relieved, because they bothered me.
Then they came for the communists,
and I didn’t speak out because I wasn’t a communist.
Then they came for me
and there was no one left to speak out for me.

初めに、彼らがジプシーをつかまえに行ったとき、
奴らを征服したので、私は嬉しかった。
次に、彼らがユダヤ人をつかまえに行ったとき、
私は声をあげなかった。奴らが大嫌いだから。
そして、彼らが同性愛者をつかまえに行ったとき、
私は安堵した。奴らにうんざりしていたから。
また次に、彼らが共産主義者をつかまえに行ったとき、
私は口を閉じた。共産主義者ではないから。
ある日、彼らが私をつかまえに来たとき、
誰一人、声をあげる者はいなかった。

Sunday 25 January 2015

Leon

Francia/Usa 1994 di L.Besson

Con Jean Reno, N.Portman, G.Oldman

Little Italy, New York. Leon, sicario italoamericano, vive da solo un’esistenza meccanica, senza significato ne'affetti, dedito esclusivamente all’inumano mestiere di killer, in una apparente assenza di qualsiasi attaccamento alla vita, condizione tradita solo dalla sua regola fondamentale di non uccidere donne e bambini e dalle cure amorevoli che riserva ad una pianta in un vaso. Per lui questa piantina è “simile a lui, perché altrettanto priva di radici e silenziosa”. Leon ha come vicini di casa la problematica famiglia allargata di una ragazzina di nome Mathilda, il cui padre è immischiato in traffici di droga e di cui fanno parte anche la matrigna, la sorellastra e il fratellino di quattro anni, l’unico cui Mathilda sia affezionata veramente. Un giorno alcuni poliziotti del Dipartimento Antidroga, comandata dal corrotto e psicotico Stansfield, irrompono in casa di Mathilda per recuperare una partita di droga che avevano affidato al padre della ragazzina. Questi ha tagliato una parte della droga, ma ha sottovalutato l’avvertimento del polizotto e finge di non sapere nulla in proposito. Stanfield scatena un conflitto a fuoco in cui viene massacrata tutta la famiglia di Mathilda, mentre lei si salva perché fuori casa. Al suo rientro rendendosi conto di quanto è accaduto, la ragazzina suona al campanello di Leon...

Saturday 24 January 2015

Torniamo a parlare di fraternité

Fraternité di Eletta Paola Leoni 

Quest’anno, al Tonalestate, si tocca un punto vitale, di vita o morte potremmo dire: perché si tratta di vedere se la fraternité – parola che si collega d’istinto alla rivoluzione francese e al cristianesimo – indichi una possibilità di vita diversa per questo secolo ventunesimo, così confuso, spesso disordinato fino alla volgararità e sempre individualistico e minaccioso.
Dal dialogo tra giovani e adulti, tra uomini e donne di ampia cultura e di sperimentata azione nel sociale – da quell’unità di intenti e diversità di esperienze e culture che sempre fa del Tonalestate un evento unico e indimenticabile – potrebbe emergere un quadro, un segno, un ritratto di fraternité che possa valere per musicisti e mendicanti, anche loro in lotta, secondo lo stupendo quadro di Georges de la Tour scelto per il manifesto di quest’anno: che possa valere, dunque, a sanare quei conflitti che ciascuno e tutti generiamo e soffriamo. Che possa valere per un ebreo, un islamico e un cristiano, un buddista e un agnostico. Che possa valere per un militante di un partito al potere o all’opposione. Che possa valere per un israeliano e un palestinese, per un kirguiso e un uzbeko, per una parte e l’altra di chi subisce e vive i conflitti. Che possa valere per quella donna che va al lavoro ogni giorno per mantenere i suoi figli e per quell’uomo che anche lui va al lavoro ogni giorno per mantenere i suoi figli. Che possa valere per un insegnante e un banchiere, per un giovane prete di provincia come per un ateo, un guru o un esoterico, per uno scienziato o uno studente o un disoccupato, così come per tutti gli uomini e le donne, di buona o cattiva volontà, che abitano questo pianeta in via di rinnovamento.
Sulla fraternità (se vogliamo così tradurre la parola francese fraternité), le labbra anche più esperte a parlare si sentono indotte a tacere. È dunque cosí carica di mistero questa straniera che visita la convivenza umana per un attimo e poi sparisce, se ne va, lasciando il posto all’inimicizia o al vuoto?
Il tema è davvero arduo, complicato, soprattutto perché non sono poi così tante le esperienze di fraternità alle quali possiamo far riferimento senza sentirci trafitta l’anima da un senso di sconfitta.
Varie negative esperienze hanno reso un po’sospetta la nostra bellissima sorella fraternité. Sono, di fatto, molte, forse troppe, le fraternità che hanno lasciato l’amaro in bocca alla storia umana. Se noi facciamo anche solo una passeggiata nel passato in cerca di vita fraterna, non sono molti gli esempi che si salvano da un giudizio per lo meno carico di interrogativi: riti di iniziazione, voti di segretezza, lavaggio del cervello, ricatti, promiscuità obbliganti, padri-padroni che decidono della vita e della morte dei loro seguaci, immani sforzi per salvare a tutti i costi unioni nocive e dannose si sono rivelate malattie mortali per quelle che dovevano essere libere associazioni tese a un fine alto e meritorio. Dalle vestali romane – che vivevano in comunità anch’ esse – interrate vive se mancavano al voto di castità, ai pitagorici che vivevano in comune di erbe, di insegnamento e di dissidi interni, fino ai conventi dove la reclusa pregava Dio in cambio di un pezzo di pane che la società le negava: se continuiamo il percorso troviamo tante, troppe esperienze terminate molto male. Di beati Paoli, di Triade, Yakuza e Tug son pieni i cimiteri della fraternità.
Società di amicizia si sono viste corrotte dalla necessità di istituzionalizzazione, soffocate da gerarchie interne, da ruoli e funzioni e hanno perso, a poco a poco o ben presto, ogni significato, calpestando la libertà di appartenere, salvata solo, a volte, dalla coscienza inusuale e profondissima di rari santi, laici o religiosi.
È dunque proprio così difficile vivere insieme come fratelli, quei fratelli che forse non sono mai esistiti se non come personificazione del radicato desiderio di appartenenza che inquieta il cuore di ogni uomo? Il senso di sconforto, che sembra accompagnare le ore di tutti gli abitanti della terra, non nascerà proprio dal sentire di essere senza fratelli, cioè di non appartenere a niente e a nessuno, sentimento che i grandi scrittori russi dell’800 avevano intravisto e denunciato, inascoltati?
Potremmo dire, ansiosi quasi di essere smentiti, che ci sono condizioni oggettive, oggi, che rendono probabilmente già impossibile l’esistenza del tipo di fraternità che gli uomini han tentato di vivere nel passato.
Pensiamo alle nostre città.
La città, “lasciva, senza amore, vorace come un fogna che tutti affratella” – così la descrive Clemente Rebora -, è diventata il luogo, l’unico luogo – per la maggior parte degli uomini e delle donne del nostro tempo – in cui nascere e morire, senza avere mai avuto la possibilitá di un rapporto con gli altri, con la natura e con le cose che non sia un rapporto totalmente contaminato da una mentalità che sostanzialmente rimane “borghese”, cioè dalla mentalità del do ut des. È sufficiente pensare che in mezzo alla natura ci si va in vacanza, ed è detto tutto del rapporto falso che si ha con la natura stessa. Perché poi, lì, in riva al mare e sotto le sue palme o camminando tra monti e i loro abeti, c´è sempre una di quelle caverne dove passare confuse, assordanti ore di immeritata violenza.
Non esiste un luogo più ostile alla fratellanza delle nostre attuali città, dove, sempre per continuare con Rebora, “un nodo scorsoio agli altri ti impicca”, nei casermoni senza vista, nelle lunghe attese alle casse dei supermercati, nel traffico che odora di fretta e in quelle malsane obbliganti unità che sono diventate le scuole e le università.
Rebora vedeva venire tutto questo agli albori del secolo ventesimo, che già manifestava i primi sintomi di una malattia che in fretta ha corroso completamente il tessuto sociale, tanto in Occidente come in Oriente e, negli ultimi decenni, ha raggiunto anche quelle terre che i francesi chiamarono Terzo Mondo, a cui si aggiunsero poi il quarto, il quinto, il sesto e chissà quanti altri mondi, allora diversi e ora troppo uguali uno all’altro, dove la diversità è spettacolo inautentico che attira l’orda distruttrice dei turisti.
A questa malattia che ha corroso il tessuto sociale dei nostri paesi, si sono dati molti nomi, però non si è ancora trovata la medicina che cura, forse perché nessuno si impegna, con occhi limpidi, non decisi dai giornali e dalla tivù, a conoscere di che malattia è malata veramente la nostra società.
I figli – tra loro pertanto fratelli – pagano di nuovo le colpe dei padri, come nelle tragedie greche? E quei padri siamo noi, dice Pasolini. Noi, i padri, non abbiamo combattuto con sufficiente vigore e chiarezza il volto antifraterno, la malattia nascosta sotto le illusioni del progresso, dello sviluppo tecnologico, dei soldi, dei bei vestiti e dei mobili d’arte, della pace sbandierata e temuta, della libertà obbligata, dell’uguaglianza che, nonostante le solenni dolci parole di Rousseau, è diventata l’oscena maschera delle morte identità.
Noi, i padri, non abbiamo voluto vedere le conseguenze di una società fondata sul consumo e finalizzata al consumo. Non abbiamo voluto far fronte, nei fatti, a quel modo di pensare la vita, a quel tipo di mentalità che ha eliminato, in pochi decenni, quelli che avremmo potuto continuare a chiamare “popoli, razze, tribù e nazioni”. Noi, dobbiamo riconoscerlo, non abbiamo combattuto con adeguata forza il consumismo edonistico e insano, che adesso obbliga i nostri giovani a coltivare nascostamente l’infelicità, mantenuta da loro in segreto, perché considerata immorale, in quanto traditrice dell’unica legge che hanno da noi ereditato: l’obbligo di essere felici.
Ma come potrebbero essere davvero felici (anche tanto superficialmente felici come abbiamo loro trasmesso nel significato di questa misteriosa parola) i figli di una generazione che ha lottato e combattuto per un futuro dove l’uguaglianza significava – era evidente – omologazione, e la libertà significava quella sfrenata, disumana libertà di mercato che ha permesso e permette tuttora una disparità palese e vergognosa dei mezzi di sussitenza?
Chissà ancora molti fingono di non sapere che il loro benessere è garantito solo dalla miseria di altri. Ma tutti sappiamo che è cosí. E, allora, capiamo perché la lotta è sempre la stessa: garantire il benessere al proprio clan a danno degli altri clan. L’ importante è stare dalla parte giusta, col clan vittorioso. E la preghiera dei più assomiglia troppo a quella del fariseo che Gesù non amò: “Meno male, Signore, che io non sono come loro. Meno male che capisco la lingua di chi mi fa lavorare, e non devo mandare i soldi a un paese dove abitano la sporcizia e la fame. Meno male che non mi sono mai contaminato nei loro disordinati negozi. Meno male, Signore, che non sono uno di quelli che accettano di vivere in venti in una stanza, senza lenzuola né bagnoschiuma. Meno male che non sono come quelli che festeggiano i quindici anni della figlia indebitandosi, presso un usuraio, per tutta la vita, invece di far bene i conti tra quel che si guadagna e quel che si può spendere. Meno male che compio il mio bravo dovere di cittadino, appoggiando chi dice che farà i miei interessi. Meno male che non sono di quelli che si suicidano per far sapere che esistono, poveri pazzi, vergogna dell’umanità. Meno male che mio figlio fa il dottorato: aiutalo, Signore, a camminare sempre più in su. Grazie Signore perché io e mio marito abbiamo la casa in collina per passarci il weekend e la villetta a schiera dove invitare per una grigliata i nostri carissimi amici, che hanno anche loro una casetta a schiera e una villetta in montagna. Meno male che sono una persona che ha capito che la vita privata è una cosa e la vita pubblica è un’altra. E io non sono certo di quelli che danno una moneta a uno straccione, perché so che la usa per comprarsi la droga. Che vadano a lavorare tutti e, se non c’é lavoro, perché non tornano a casa loro? Meno male che sono dalla parte giusta. Meno male che non sono come loro.”
E quel “loro” è la lunga fila dei poveri e degli immigranti bastonati e uccisi e magari avevano solo undici anni e stavano giocando al pallone con gli amici, sotto gli occhi delle guardie che devono difendere i muri costruiti dall’ordinata ostilità.
E quel “loro” è la fila sempre piú sottile dei combattenti per la giustizia, dei questuanti della libertà, che cercano tra le immondizie alimento e contemplano il fiore che nasce dal concime.
E quel “loro” sono i poveretti che vivono in guerra, che molte volte non sanno perché poi la guerra ci sia proprio da loro, ma intanto la vedono nascere, poi esplodere, poi finire e poi ricominciare. Ci sono violentissime, interminabili guerre civili tra Stato e criminalità organizzata, che lasciano migliaia di morti ogni anno. E poi ci sono paesi che ci siamo abituati a sapere che sono in guerra. E la preghiera di Mark Twain, che il Tonalestate 2010 ha scelto per il suo manifesto, è una preghiera che han recitato sicuramente i soldati mandati in Iraq, qualche anno fa. Quell’Iraq è forse ora piú “civile”? Non era certo la difesa della libertà a muovere l’esercito dei messicani, dei portoricani, dei salvadoregni che, alla guida di un generale nordamericano, hanno lasciato i loro corpi in una terra antica e lontana. Emigrati poveri inviati ad ammazzare altri poveri: in cambio ne hanno avuto qualche alimento in più per la loro famiglia, che vive ancora nella Sierra o alle falde dei Vulcani.
Ci siamo abituati alla guerra civile dentro uno stesso paese e alla guerra di conquista, di difesa, di attacco e di stupidità. Ne seguiamo i passi. Vediamo le vittime e vorremmo non vederle. Non arriva mai a noi quel loro pregare, senza i salmi o le litanie, ma sempre preghiere sono, perché il nemico, vittorioso, non sia tanto crudele, così che i loro bambini, le loro donne, i loro vecchi, e – perché no? – loro stessi, siano salvati dalla spada, dal piombo, dalla tortura e dal dolore. E qualche sposa di un nemico vittorioso starà piangendo sul corpo morto in battaglia di colui che lei amava, e si domanderà: “E, questa, la chiamano vittoria?”
Ci siamo abituati alle guerre, tanto che ci stancano le notizie ripetute sulla sua indimenticabile esistenza. Il sussurro delle anime in pena sono un’offesa alle nostre orecchie distratte. Il tè delle cinque e l’aperitivo delle otto fanno dimenticare, ogni giorno, alla nostra comoda pigrizia, che ognuno di noi, se indifferente, è complice ed è anche vittima ed è anche causa.
Forse la cosa più difficile da affrontare, in termini di fraternità o fratellanza, è proprio quello che Pasolini indica nelle sue Lettere luterane: in nessun’altra epoca della storia il salto generazionale è stato tanto violento e radicale come è successo alla nostra e perciò tutti siamo come smarriti, e le parole ci suonano in testa, semplicemente le ripetiamo, ma non ci cambiano. Il mondo oggi è un antico testamento a cui è stato tolto il cuore, la promessa, il senso.
Forse non esistono più né padri né figli. La trasmissione artigianale è praticamente in via di estinzione: l’insegnamento di un vecchio a un giovane è inefficace, così come il giovane sembra non costituire più, per un vecchio, il frutto gioioso della vita che si rinnova. I padri non capiscono il linguaggio dei loro figli e i figli non capiscono il linguaggio dei loro padri. I padri sembrano guardare un po’ storditi questi loro figli ereditare, senza innocenza, un mondo corrotto, senza valori, nel quale si trovano profondamente a disagio, ma che non rifiutano né sanno cambiare. E i figli si domandano in che cosa e come hanno usato il tempo i loro padri, che non hanno più sposa o sposo né amici, ma, in cambio, hanno tanti conoscenti e che non ci sono mai, perché vanno sempre in giro, desiderosi di pensione e di un’impossibile, frenetica, ottusa tranquillità.
Ed ecco che in questo contesto il tema del Tonalestate ci fa tornare alla mente un salmo che osa dire: “Come è bello e come è dolce che i fratelli vivano insieme”.
Scopriamo, indagando un po´ quà e un po´ là, che adesso sono in tanti a cercare nuove forme di vita comune. Certe nuove esperienze cenobitiche, totalmente laiche, le chiamano, a Milano, “condomini solidali”. Ne esistono in tutto il mondo occidentale (in Belgio, Svezia, Germania, Stati Uniti), con nomi diversi ma con la stessa finalità; è il boom delle comunità che nascono in cascine o in edifici appositamente ristrutturati; i partecipanti condividono spazi abitativi, stipendi e problemi: da come allevare i figli a come portare a spasso il cane o coltivare le aree verdi circostanti. Una specie di sfida al buon gusto e all’inesorabile pessimismo che alberga in fondo all’homo homini lupus, così lontano dall’homo homini deus cui potrebbe aspirare. Non si può non restare sorpresi nel vedere quanti blog esistano dove vengono messe in comune esperienze concrete, tentativi volontaristici, direi testardaggini di vita in comune. Si pubblicano anche libri su queste esperienze, dove vengono suggeriti quali passi compiere e quali errori evitare perché la vita in comune, in queste nuove forme di secolarizzati conventi, possa essere duratura.
Mi domando: fraternità e vita in comune coincidono? E ovviamente torna alla mente lo scrittore francese Bernanos che domanda: “Ma che vita è la vostra, se non è vita in comune?”.
Forse, però, occorre andare più al fondo.
Crea fraternità quel soldato che si fa uccidere, invece di uccidere. Nessuno saprà mai il suo sacrificio. Ma l’aria, il suolo che accoglie i suoi resti, il vento che sommuove la terra dov’è sepolto, sanno che il suo sacrificio ha rinnovato l’universo, donandogli tempo per ravvedersi.
Crea fraternità quel giovane un po`inquieto, che si sente un impostore perché vorrebbe amare perfettamente Dio e il prossimo. E sente e vede che fa troppi errori, anche se non tanti, come è propenso a credere. Gli altri sanno che il suo cuore è vero e ne sono salvati.
Crea fraternità quella giovane che aveva sette demoni, direbbe il vangelo, ne viene liberata e riceve così una consolazione che nessuno le potrà togliere.
Crea fraternità quella vedova che dà l’ultimo suo centesimo in offerta, per non calcolare più il futuro. E lei dà giusta importanza al suo tempo che si è fatto breve. Si alza ogni mattina, riflette, abbraccia, crea ponti col suo intorno, che talvolta è un poco ostile. Lei cammina verso l’eterno, chiedendo solo umilmente di non fare il male. È sempre attiva, non cerca come passare il tempo: è il tempo che la trafigge e la pulisce, mentre lei lavora e lavora, in piccole e grandi cose.
Crea fraternità quell’uomo malato che combatte, sempre, col fuoco nelle vene di chi sa che ancora gli resta un compito, importantissimo, da portare a termine.
Creano fraternità quei due o tre riuniti attorno a un mistero. Non hanno certo l’ultima parola su niente. Non contano per nessuno. Non sono un condominio solidale. Ma l’eterno, che ama giocare con la sapienza, si diletta ad abitare le loro armoniose stanze.
Perché credo che la fraternité sia una visitazione. E pertanto è piú da attendere, domandare e poi abbracciare, che non un “quid” da costruire. Non vale la pena, infatti, cercar di costruire ciò che l’uomo deve incontrare quale dono costruito da un Altro, come avremmo dovuto imparare dalla parabola della Torre di Babele.
La fraternité quindi – dono privilegiato per l’uomo che accetta di essere libero e probabilmente concesso solo all’uomo pio – è, secondo me, l’unica sana nostalgia radicata nel nostro cuore. Per il solo sussurro di questa nostalgia, dentro l’autentica, trasparente storia, ella si fa incontrare di nuovo nel tempo, nella carne, nel limitato spazio che abitiamo. Fraternità vera, non più fraterna scena.

Friday 23 January 2015

La sesta faccia del Pentagono

"Se le cinque facce del Pentagono ti sembrano impenetrabili, attacca la sesta"
Proverbio Zen

LA SESTA FACCIA DEL PENTAGONO
(La Sixième face du Pentagone, Francia, 1968, col, 26', v.o.sott. it.)
Regia: Chris Marker
In compagnia di diversi operatori Marker si è recato nell'ottobre del 1968 a Washington per filmare la marcia, seguita da un assalto, di diverse migliaia di persone sul Pentagono, centro militare degli Stati Uniti e simbolo della guerra in Vietnam. Negli Stati UNiti il film fu distribuito come Newsreel Nr. 113 col titolo October 21, 1967, Demonstration. -

(The sixth face of the Pentagon, France, 1968)
by Chris Marker
With some operators Marker went on 21st of October 1968 to Washington in order to film the rally, and the following assault, of thousands people over the Pentagon, militar center of the United States and symbol of the war in Vietnam. In the States the movie was distributed with as "Newsreel Nr.113" with the title "October 21, 1967, Demonstration"

on streaming;
http://creativemedia4.rai.it/podcastcdn/raicinema/I_film_della_settimana/3102608_1800.mp4

Thursday 22 January 2015

Combien de fois faudra-t-il répéter que l’islam est une religion de paix ?

Latifa Ibn Ziaten, la mère d’Imad, militaire tué par Mohamed Merah, milite sans relâche dans les écoles et les quartiers.


Latifa Ibn Ziaten, la madre di Imad, militare ucciso da Mohamed Merah, milita senza sosta nelle scuole e nei quartieri. 
Ha portato avanti numerosi mesi di lavoro di sensibilizzazione dei ragazzi alla tolleranza attraverso la sua storia. 
Dopo gli attentati di Charlie Hebdo e della Porta di Vincennes, ha ripreso ancora più di prima il suo bastone da pastore. A rischio di farsi insultare. 
La settimana scorsa, ha parlato su “L’Obs”. Testimoniato. 

Wednesday 21 January 2015

HISTORY PASSANGER




La Guerre, par Otto Dix, 1932

Les représentants de la « nouvelle objectivité » prônent un réalisme cru et cynique en réaction à la barbarie de 1914-1918. A son retour des tranchées, le peintre Otto Dix montre la guerre dans ce qu’elle a de « bestial » : visages blafards et corps déchiquetés hantent ses toiles, tels Les Joueurs de skat (1920). Son célèbre triptyque La Guerre, représentant de lugubres champs de bataille jonches de cadavres, devient la signature d’un pacifisme engagé. Sous le nazisme son art est dit « dégénère » et nombre de ses toiles sont brulées.

Tuesday 20 January 2015

Educare e/è accompagnare


La Scuola dell'Infanzia "Miro" ha ricevuto la visita di due volon­tarie italiane che da anni vivono in El Salvador e collaborano al lavoro della Guarderia "Las Abejitas'; un dopo-scuola gestito dal­la "Fundaciòn Divina Pro­videncia" (FUNDIPRO), partner locale dell'asso­ciazione I Sant'Innocen­ti (ISI),

Sunday 18 January 2015

Jimmy's Hall

di Ken Loach, Irlanda 2014
con Barry Ward, Simone Kirby, Andrew Scott, Jim Norton


Sulle note di un jazz d’importazione da un’America depressa che scorre in apertura con filmati di repertorio, Loach torna alla storia vera con Jimmy Gralton (Barry Ward), un intraprendente e belloccio giovane irlandese, attivista socialista di fede sicura, già partito per un esilio volontario nel ’21 alla volta degli States. 
Aveva aperto, infatti, in un capannone della campagna irlandese immerso nell’erba che il vento accarezzava quando non sparavano fucili, la Pearse-Connolly Hall, una sala da ballo in cui divertirsi un po’ non sembrava essere un peccato mortale. Considerato pericoloso in tempi in cui anche pensare era una minaccia all’ordine pubblico, ebbe vita difficile fin quando non decise di partire, lasciando madre e donna amata ad aspettarlo. Tornato dopo dieci anni...

Indians (di T.Heffron, USA 1975)

INDIANS (1975)
La storia che ci presenta questo film del 1975 è la storia del cinismo del potere, qui evidente nelle sofferenze del popolo indigeno americano, gli indiani d’America, causate dalle operazioni di sterminio degli invasori d’oltremare.
I due “attori” principali del film sono due modi di vedere il mondo, di cui, inevitabilmente, uno è ingiusto e sbagliato. Da una parte l’esercito dei coloni americani, arroganti invasori moralisti che propugnano carte di libertà e democrazia in uno sforzo diremmo infantile di costruirsi un’immagine (moralistica) di “buona nazione”; dall’altra il popolo autoctono e secolare di capo Giuseppe, uomo saggio e prudente , a capo di un popolo profondamente radicato nel suolo americano, con tradizioni legate alla terra, alla natura e, in un certo senso, alla semplicità che deriva da quella sincera religiosità insita nel cuore umano immerso nel mistero della vita.

Friday 16 January 2015

...ancora Warschawski sui fatti di Parigi

Il massacro a Charlie Hebdo
di Michel Warschawski, pubblicato da Alternativenews.org, domenica 11 gennaio 2015
(segue testo originale in inglese)

In segno di rispetto per le vittime, invece di supportare la nazionale – e addirittura internazionale – unità contro i fondamentalismi islamici, cerchiamo di rafforzare, ovunque noi siamo, un ampio fronte antifascista, dove i Musulmani avranno il loro pieno, legittimo, posto.

Un attacco alla nostra libertà, non un uno “scontro di civiltà”. 

Thursday 15 January 2015

Warschawski sui fatti di Parigi

NO a NETANYAHU al Raduno di Charlie! 

di Michel Warschawski, 11 gennaio 2015
(segue il testo in inglese)
Tutta la destra di Israele sarà rappresentata alla manifestazione di solidarietà con Charlie Hebdo. Io posso solo ripetere quello che ho già scritto: è un imperativo il respingere il fronte unito di Charlie e porre limiti, il più ermeticamente possibile, tra il nostro campo e tutti quello che viene a interferire e inquinare con il loro discorso razzista di scontro di civiltà, la maggior parte dei valori difesi da Charlie.

Wednesday 14 January 2015

Chomsky sui fatti di Parigi

NOI SIAMO TUTTI - RIEMPIRE IL VUOTO
10 January 2015

di Noam Chomsky

(segue il testo originale in inglese)
Il terrorismo non è terrorismo quando un molto più grave attacco terroristico è compiuto da quelli che sono i Giusti della virtù del loro potere.

Il mondo ha reagito con orrore all’attacco omicida al giornale satirico francese Charlie Hebdo. Sul New York Times, il veterano corrispondente dall’Europa Steven Erlanger, ha descritto graficamente l’immediata conseguenza, che molti chiamano l’11/9 francese, come “un giorno di sirene, elicotteri nell’aria, frenetici bollettini di notizie; di cordoni di polizia e folle ansiose; di bambini portati via dalle scuole per la sicurezza. E’ stato un giorno, come i due precedenti, di sangue e orrore a e intorno a Parigi”. L’enorme clamore in tutto il mondo è stato accompagnato dalla riflessione sulle profonde radici dell’atrocità. "Molti percepiscono uno scontro di civiltà", dice un titolo del New York Times.

HISTORY PASSANGER



Colonne Vendôme à terre, photographie de Bruno Braquehais, 1871

Avec sa statue de Napoléon 1er à son sommet, la colonne Vendôme constitue un symbole impérial. Aussi est-elle « déboulonnée » le 16 mai 1871. Apres la chute de la Commune, le peintre Gustave Coubert est accuse par l’Etat d’avoir mené l’opération. Lors de son procès, cette photographie est utilisée pour prouver sa présence à place Vendôme les jour des évènements : il serait l’homme barbu et coiffe d’un képi situe à l’arrière-plan, dans le premier tiers droit de l’image.

Tuesday 13 January 2015

Morin su i fatti di Parigi

poiché in tutte le scuole i nostri ragazzi ci chiederanno un giudizio, una spiegazione, un perché e una posizione da sostenere, qui alcuni spunti di E.Morin


Edgar Morin, 10 gennaio 2015
LA FORMULA di François Hollande è giusta: la Francia è stata colpita al cuore. Al cuore della sua natura laica e della sua idea di libertà. Lo è stata nell'attentato contro un settimanale tipico dell'irriverenza e della derisione, anche del sacro in tutte le sue forme, segnatamente religiose. Ora, l'irriverenza di Charlie Hebdo si manifesta nell'umorismo, nella risata; ed è questo che conferisce all'attentato il suo carattere di mostruosa imbecillità. Non dobbiamo lasciare che la nostra emozione paralizzi la ragione, così come la nostra ragione non deve attenuare la nostra emozione.

Monday 12 January 2015

Vincere la violenza edificando il bene



Pane Pace Lavoro desidera unirsi al coro delle voci che, in queste ore, stanno condannando i gravi atti successi nei giorni scorsi a Parigi. Condividendo il dolore delle famiglie delle vittime, vogliamo, di nuovo, gridare che non può esistere nessuna causa che giustifichi un’azione violenta commessa ai danni di un uomo.

Wednesday 7 January 2015

HISTORY PASSANGER


Turpitudes sociales par Camille Pissarro, 1890.

De Camille Pissarro (1830-1903) on se souvient comme d’une figure de l’impressionnisme. Il s’agit là d’une mémoire sélective: elle escamote les engagements politique du peintre, qui éclatent – à coups de rayures, de hachures et de griffures – dans ses Turpitudes Sociales. Avec cet ensemble des dessins publies en 1890, Pissarro entend montrer “la guerre des maigres contre les gras, de la vie contre la mort”.

Sunday 4 January 2015

Gravity (di Alfonso Cuarón, USA 2013)

Ormai, il novantanove per cento dei film che guardiamo viene dagli States. Volenti o nolenti, succhiamo il loro modo di vedere senza accorgercene, senza nemmeno avere più il gusto di preoccuparcene. Tuttavia, si possono trovare dei validi significati nascosti, dei second meanings, anche in filmetti usa e getta. Basta avere gli occhiali giusti. E’ il caso di un film di fantascienza, Gravity, chiaramente pensato e costruito per strabiliare ancora una volta lo spettatore con gli ultimi prodigi della computer graphics e i suoi speciali effetti. La storia è molto semplice: tre astronauti vengono assaliti da uno sciame di polvere o spazzatura spaziale (detriti o rimasugli di apparecchiature elettroniche disperse nello spazio da decenni) , ammazzandone due e lasciando alla deriva l’ultima, una donna. Tutto qua.