Non occorre essere esperti per riconoscere il bianco dal nero, e, all’occasione ammettere che non si tratta né di bianco né di nero, ma di un grigio. Alla stessa maniera, mi sembra che si possa operare, anche se, approssimativamente, nel mondo dell’arte cinematografica. E’ vero che ci sono casi in cui il senso o il“colore” di un’opera si capisce anche dagli occhi di chi lo guarda, di chi in un certo senso ce lo reinterpreta. Un pittore potrebbe aver messo nel suo quadro degli elementi di cui non si era accorto nemmeno lui. Così, forse, anche per i film.
Ebbene, riguardo l’ultimo film del regista di “frontiera” (la frontiera di un mare a volte inutile di pellicole) Terrence Malick, intitolato “L’albero della vita” (The Tree of Life), mi sembra si possa dire la stessa cosa. Il regista è intenzionato a una cosa ben chiara: il senso della vita. Non lo si può nascondere. Tant’è che il suo metodo artistico prediletto è quello della domanda, che in ambienti più psicologizzanti si chiamerebbe introspezione, o, in maniera filosofica, è quello che si direbbe “l’interno”. L’uomo infatti è un misterioso centro di relazione fra un interno e l’esterno. In quest’ultimo film – che, come detto, per la sua scelta narrativa, ci ricorda un po’ un altro suo capolavoro “La sottile linea rossa” – il piano esistenziale si inclina, o si innalza, ancora di più con chiarezza verso quello che dovremmo chiamare, a rigor di etimologia, il senso religioso. Nessun recensore cinematografico (o, almeno, la gran parte di coloro che sono obbligati dalla popolarità del film a scrivere una recensione per una qualsiasi rivista impersonale patinata e spalmata di pubblicità a ogni pagina) si sognerebbe di usare la parola “religioso” e, forse a ragione, in tempi come i “nostri”. Meglio essere asettici e stare sui generis. Si vende meglio. Infatti, molti preferiscono la parola “ottimismo”, “speranza nel futuro” ed “emozione”. Ma sono tutte inessattezze, giudizi inesatti. Come dire che i girasoli di van Gogh sono in realtà dei tulipani gialli.
Dico questo a ragion veduta. Infatti, il regista, senza mezze misure, per catapultare lo spettatore nel cuore del problema che vuole mostrare (e forse anche “discutere” ), parte con un dolore “indicibile”, il dolore senza nome: la perdita di un figlio. Con chi prendersela se non con chi, semmai ci fosse questo “chi”, ha iniziato questo “patimento” che è la vita? Ci si riduce a superstiti o inerti, e forse è l’unica soluzione. Ma lungi dal muovere la vicenda dal piano tragico al piano new age, dove l’umanesimo ateo si trasforma in umanesimo di sentimenti con tanto di musica di sottofondo, il regista (che ricordiamo è stato professore di filosofia al MIT) ci trasporta nell’amtosfera interna. Quasi con una pretesa artistica, vuole farci ascoltare ciò che non vogliamo più ascoltare:le domande di fondo. Ma c’è ancora di più. Mentre in “La sottile linea rossa”, lo stesso fiume sotterraneo di domande, di parole mai pronunciate sembra non avere altri interlocutori che se stessi o un esterno astratto e pittorico, in Tree of life l’interlocutore è chiaro. E’ un Tu.
Non è semplicemente “dio”, parola troppo pericolosa in questi tempi in cui è facile piantare le bandiere delle ideologie di qua e di là sui corpi degli altri, scivendoci sopra “in nome di dio”. E’ un Tu. Ovvero, un soggetto personale. Un ascoltatore. Per un film destinato al grande pubblico e vincitore della Palma d’oro 2011 a Venezia, penso sia un esempio raro e ben riuscito di introduzione a uno dei problemi chiave dell’uomo, su cui si dibatte da secoli. Forse, la visione del film risulterà un po’ lenta in alcune parti, soprattutto nei lunghi dialoghi “interni”, in cui, non compaiono né volti, né panorami, né scenari, ma solo luci e ombre e voci. A mio parere, esso è il modo del regista di esprimere quell’universo interiore, che un Blondel forse chiamerebbe “l’attività interna”.
Tutta la storia si basa sulla vita di questa famiglia, la famiglia O’Brien. O meglio, su Jack, uno dei quattro figli.
Attorno a lui, ruota l’universo delle vicende, dalla morte del fratello fino alla maturità, quando diventa un architetto affermato ma insoddisfatto. Un movimento vorticoso e a volte confuso, disordinato, in cui entrano ed escono voci a volte assordanti, a volte consolanti, penetra tutto il film o, se vogliamo, tutta la vita di questa famiglia e di questo ragazzo. L’evoluzione umana di Jack è accompagnata dalle immagini che rimandano all’evoluzione dell’universo e della vita. D’altro canto, anche chi è attorno a noi si evolve come noi. Il padre di Jack ha sogni di successo, cerca di sfuggire al dramma della vita inseguendo l’ambizione del successo, come per dominare la vita. La madre di Jack è più docile alla sorte, e, senza dimenticare il dolore, lo nasconde, lo ripone in un posto recondito del suo cuore e continua a fare quello che deve fare:la madre.
Un padre che dietro la sua durezza e severità nasconde una paura; una madre che dona questa paura al mistero, generando, miracolosamente, letizia. In tutto questo, i figli che devono, come tutti, passare attraverso i misteriosi fuochi dell’adolescenza. Il tutto, per dire che l’evoluzione altro non è che una pedagogia verso quel Tu. Passati i fuochi, passati i dolori, finite le ambizioni (anche il padre di Jack non realizzerà mai le sue ambizioni di ingegnere), non rimane che il faccia a faccia dell’uomo nudo di fronte a quel Tu. Quello che in Odissea 2001 è un monolite terribile e muto, qui è un albero misterioso e vivo, l’albero della vita appunto, un albero che avvolge tutto e tutti, quasi per dire che siamo tutti insieme.
Sarebbe meglio usare un’altra parola per questo “insieme”, perché “insieme” potrebbe rappresentare una morta collezione di cose senza relazione. La parola forse più adatta è la parola compagnia, parola di diverse interpretazioni, la migliore forse quella che ce la spiega come “patire insieme”, e il verbo patire non è solo indicazione di dolore ma di tutto il complesso della vita umana, il pathos, il sentire, il domandare, appunto.
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