Sunday 3 May 2020

Edgar Morin: fratelli del mondo

Edgar Morin: fratelli del mondo

Corriere della Sera - 5 Apr 2020

di Nuccio Ordine
«L’unificazione tecnico-economica del mondo, creata dalla diffusione del capitalismo aggressivo negli anni Novanta, ha generato un enorme paradosso che l’emergenza del coronavirus ha reso ormai visibile a tutti: questa interdipendenza tra le nazioni, anziché favorire un reale progresso nella conoscenza e nella comprensione tra i popoli, ha scatenato forme di egoismo e di ultranazionalismo. Il virus ha smascherato questa mancanza di un’autentica coscienza planetaria dell’umanità». Edgar Morin parla con la consueta passione riuscendo a rendere calorosa perfino una conversazione, a distanza, attraverso Skype. Anche lui, come milioni di europei, è confinato in casa, a Montpellier, dove assieme alla moglie segue con grande attenzione gli sviluppi della pandemia.
Internazionalmente riconosciuto come uno dei più brillanti filosofi contemporanei, a novantotto anni (l’8 luglio ne compirà novantanove) Morin legge, scrive, ascolta musica e, in tempo di epidemia, consuma aperitivi virtuali con amici e parenti. Proprio la sua vivacità, la sua voglia di vivere, testimoniano con forza il dramma di un flagello che sta spazzando via soprattutto migliaia di anziani e di malati con patologie pregresse. «So bene — dice con una leggera noncuranza — che potrei essere la vittima per eccellenza del coronavirus. Alla mia età, però, la morte è sempre in agguato. Così è meglio pensare alla vita e soprattutto riflettere su ciò che sta accadendo nel mondo intero...».
Prima di iniziare la nostra conversazione, Morin tiene a salutare gli italiani che soffrono: «Vedo ogni giorno le terribili immagini che arrivano dall’Italia settentrionale, e, ancora in queste ore, dalla città di Bergamo. Penso con affetto agli amici e ai colleghi con cui ho condiviso momenti indimenticabili nei miei frequenti viaggi nel vostro splendido Paese. Esprimo tutta la mia solidarietà agli ammalati che lottano per la sopravvivenza e ai loro parenti che non possono assisterli in questo drammatico corpo a corpo con il virus».
Vorrei prendere spunto, caro Edgar, dalla tua riflessione iniziale. La mondializzazione ha creato un grande mercato globale che, attraverso la tecnologia più avanzata, ha accorciato notevolmente le distanze tra i continenti. Un aereo in meno di ventiquattr’ore porta persone e cose dall’altra parte del pianeta. Però, nello stesso tempo, questa riduzione delle distanze non ha favorito un dialogo tra i popoli. Anzi, ha fomentato un rilancio della chiusura identitaria in sé stessi, alimentando un pericoloso sovranismo...
«Avevo diagnosticato questo fenomeno trent’anni fa analizzando la globalizzazione e anche la disgregazione della Jugoslavia e della Cecoslovacchia. Viviamo in un grande mercato planetario che non ha saputo suscitare sentimenti di fraternità tra le nazioni. Ha creato, al contrario, una generalizzata paura del futuro. La pandemia del coronavirus ha illuminato questa contraddizione rendendola ancora più evidente. Mi viene da pensare alla grande crisi economica degli anni Trenta, in cui diversi Paesi europei, in particolare la Germania, abbracciarono l’ultranazionalismo. Sebbene manchi oggi la volontà egemonica del nazismo, mi pare indiscutibile questo ripiegamento su sé stessi. Lo sviluppo economico capitalistico ha scatenato i grandi problemi che affliggono il nostro pianeta: il danneggiamento della biosfera, la crisi in generale della democrazia, l’aumento delle diseguaglianze e la crescita delle ingiustizie, la proliferazione degli armamenti, i nuovi autoritarismi demagogici (con gli Stati Uniti e il Brasile in testa!). Ecco perché oggi è necessario favorire la costruzione di una coscienza planetaria su basi umanitarie: incentivare la cooperazione tra le nazioni con l’obiettivo principale di far crescere i sentimenti di solidarietà e fraternità tra i popoli».
Cerchiamo di analizzare questa contraddizione su scala ridotta, prendendo in considerazione il microcosmo delle relazionipersonali. L’incursione del virus ha messo in crisi l’ideologia di fondo che ha dominato le campagne elettorali in questi ultimi anni: slogan come «America first», «la France d’abord», «prima gli italiani», «Brasil acima de tudo» hanno offerto un’immagine insulare dell’umanità, in cui ogni individuo sembra essere un’isola separata dalle altre (riprendo la bella metafora di una meditazione di John Donne). Invece la pandemia ha mostrato che l’umanità è un unico continente e che gli esseri umani sono profondamente legati gli uni agli altri. Mai come in questo momento di isolamento (lontano dagli affetti, dagli amici, dalla vita comunitaria) stiamo prendendo coscienza del bisogno dell’altro. «Io resto a casa» significa non solo proteggere noi stessi ma anche gli altri individui con cui formiamo la nostra comunità...
«Sono perfettamente d’accordo. L’emergenza del virus e i provvedimenti che ci costringono a stare a casa hanno finito per stimolare il nostro sentimento di fraternità. In Francia, per esempio, ogni sera alle 20 ci si dà appuntamento alle finestre per battere le mani ai nostri medici e al personale ospedaliero che, in prima linea, si occupa degli ammalati. Mi sono commosso, la settimana scorsa, quando ho visto in televisione, a Napoli e in altre città italiane, le persone affacciarsi dai balconi per cantare assieme l’inno nazionale o per ballare al ritmo di canzoni popolari. Però c’è anche il rovescio della medaglia. L’esperienza ci insegna che tutte le gravi crisi possono anche accrescere fenomeni di chiusura e di angoscia: la caccia all’untore o la necessità di individuare il capro espiatorio, spesso identificato con lo straniero o con il migrante. Le crisi possono favorire l’immaginazione creativa (come è accaduto con il New Deal promosso dal presidente Roosevelt in America negli anni Trenta) o provocare ascessi regressivi. Penso che oggi riusciamo a comprendere meglio i limiti di una società globalizzata che ha creato un preoccupante destino comune...».
Alludi anche all’Europa che di fronte all’emergenza sanitaria ha rivelato, ancora una volta, la sua incapacità di programmare strategie comuni e solidali?
«Ma certo. La pseudo Europa dei banchieri e dei tecnocrati ha massacrato in questi decenni gli autentici ideali europei, cancellando ogni spinta verso la costruzione di una coscienza unitaria. Ogni Paese sta gestendo la pandemia in maniera indipendente, senza un vero coordinamento. Speriamo che da questa crisi possa risorgere uno spirito comunitario in grado di superare gli errori del passato: dalla gestione dell’emergenza migranti alla predominanza delle ragioni finanziarie su quelle umane, dalla mancanza di una politica internazionale europea all’incapacità di legiferare in materia fiscale...».
Qual è stata la tua reazione di fronte al primo discorso alla nazione di Boris Johnson, allo spietato cinismo con cui il premier inglese ha invitato i cittadini britannici a prepararsi alle migliaia di morti che il coronavirus avrebbe provocato e ad accettare i principi del darwinismo sociale (la soppressione dei più deboli)...
«Un esempio chiaro di come la ragione economica sia più importante e più forte di quella umanitaria: il profitto vale molto di più delle ingenti perdite di esseri umani che l’epidemia può infliggere e sta infliggendo. In fondo, il sacrificio dei più fragili (delle persone anziane e degli ammalati) è funzionale a una logica della selezione naturale. Come accade nel mondo del mercato, chi non regge la concorrenza è destinato a soccombere. Applicare alla vita umana questa logica rivela la spietatezza del neoliberismo imperante. Creare una società autenticamente umana significa opporsi a tutti i costi a questo darwinismo sociale».
Il presidente francese Macron ha usato la metafora della guerra per parlare della pandemia. Quali sono le affinità e le differenze tra un vero conflitto armato e quello che stiamo vivendo?
«Io che la guerra l’ho vissuta ne conosco bene i meccanismi. Per prima cosa, mi pare evidente una diversità: in guerra, le misure di confinamento e di coprifuoco sono imposte dal nemico; adesso è lo Stato che le impone contro il nemico. La seconda riflessione riguarda la natura dell’avversario: in guerra era visibile, adesso no. In ogni modo, non credo che usare la metafora della guerra possa essere più utile a comprendere questa resistenza all’epidemia».
Forse c’è una «globalizzazione buona»: non ti pare che gli scienziati in questo momento stiano promuovendo una collaborazione internazionale per cercare di battere il virus? L’arrivo di medici cinesi e cubani in Italia non è forse un altro segno di speranza?
«Questo è un dato indiscutibilmente positivo. La rete planetaria di ricercatori testimonia uno sforzo verso un bene comune universale che valica i confini nazionali, le lingue, i colori della pelle. Ma non bisogna sottovalutare neanche i fenomeni di coesione nazionale: stringersi, lo ricordavo prima, attorno agli operatori sanitari che lavorano negli ospedali. Molti però vengono tagliati fuori da queste nuove forme di aggregazione solidale: persone sole, anziani o famiglie povere non collegate a internet, senza contare coloro che vivono in strada perché non hanno una casa. Se questo regime dovesse durare a lungo, come continueremo a coltivare i rapporti umani e come riusciremo a tollerare le privazioni?».
Vorrei che ci soffermassimo ancora sul tema della scienza. Dopo il disastro della Seconda guerra mondiale le prime relazioni tra Israele e Germania passarono attraverso gli scienziati. L’anno scorso, mentre visitavo il Cern di Ginevra con Fabiola Gianotti, ho visto attorno a un tavolo ricercatori che provenivano da Paesi in conflitto tra loro. Non pensi che la ricerca scientifica di base, quella libera da ogni profitto, possa contribuire a promuovere in questa emergenza della pandemia uno spirito di fraternità universale?
«Certo. La scienza può giocare un ruolo importante, ma non decisivo. Può attivare un dialogo tra i laboratori delle nazioni che in questo momento lavorano per creare un vaccino e produrre farmaci efficaci. Ma non bisogna dimenticare che la scienza è sempre ambivalente. Nel passato molti ricercatori sono stati al servizio del potere e della guerra. Detto questo, io nutro molta fiducia in quegli scienziati creativi e pieni di immaginazione che certamente sapranno promuovere e difendere una ricerca scientifica solidale e al servizio dell’umanità».
Tra le emergenze che l’epidemia ha evidenziato c’è soprattutto quella sanitaria. In Italia e in altri Paesi europei, i governi hanno progressivamente indebolito gli ospedali con sostanziosi tagli delle risorse. La carenza di medici, infermieri, posti letto e attrezzature sta mostrando una sanità pubblica ammalata...
«Non c’è dubbio che la sanità debba essere pubblica e universale. In Europa, negli ultimi decenni, siamo stati vittime delle direttive neoliberiste che hanno insistito sulla riduzione dei servizi pubblici in generale. Programmare la gestione degli ospedali come se fossero aziende significa concepire i pazienti come merci da inserire in un ciclo produttivo. E questo è un altro esempio di come una visione puramente finanziaria possa produrre disastri sul piano umano e sanitario».
Che cosa succederà negli Stati Uniti, dove l’assistenza sanitaria pubblica non esiste?
«Scoppieranno le contraddizioni in maniera violenta. Ripeto: la sanità deve essere pubblica e universale. Un Paese dove solo i ricchi possono avere accesso agli ospedali e ai farmaci non può reggere all’assalto di una pandemia di queste proporzioni. Lasciare la gran parte della popolazione abbandonata a sé stessa, significa favorire la diffusione del virus senza nessun controllo. Obama aveva saggiamente avviato un progetto di assistenza sanitaria. Sabotato immediatamente da Trump».
La globalizzazione sta svelando anche la miopia della politica industriale. In Italia, per esempio, la crisi dell’epidemia ha evidenziato l’errore di rinunciare a fabbricare mascherine in Europa perché poco competitive di fronte all’offerta a basso prezzo dei cinesi. Medici e operatori sanitari hanno dovuto lavorare senza alcuna protezione, mettendo a rischio la loro vita e quella dei pazienti, mentre è esploso immediatamente un mercato nero a costi proibitivi...
«L’esempio italiano mi sembra molto eloquente e mette in evidenza un altro punto debole del cosiddetto mercato universale. Dobbiamo capire i limiti della delocalizzazione, ripensando una politica industriale in grado di garantire un’autonomia necessaria. Bisogna, in alcuni settori strategici, rilocalizzare e produrre nel territorio per rispondere anche a situazioni di emergenza. Ho visitato recentemente i cantieri dell’Airbus. E ho appreso che un gran numero di pezzi necessari alla costruzione di un aereo vengono prodotti in altri Paesi. Se le comunicazioni si fermano, come in questo momento, si blocca anche la fabbricazione degli aerei con notevoli danni economici. Il caso delle mascherine e delle attrezzature sanitarie è certamente più pericoloso per le drammatiche conseguenze che vediamo. Il coronavirus ci spingerà anche a riflettere, in termini economici e politici, sul tema della delocalizzazione e dei suoi limiti per garantire una necessaria autonomia».
La sanità e l’istruzione costituiscono i due pilastri della dignità umana (il diritto alla vita e il diritto alla conoscenza) e le basi dello sviluppo di una nazione. Anche il sistema educativo statale ha subito in questi decenni tagli terribili...
«La sanità e l’istruzione, su questo punto sono d’accordo con ciò che hai scritto nei tuoi libri, non possono essere gestite con una logica aziendalistica. Gli ospedali, le scuole e le università non possono generare profitto economico, devono pensare al benessere dei cittadini e a formare, come diceva Montaigne, “teste ben fatte”. Bisogna ritrovare lo spirito del servizio pubblico che in questi decenni è stato fortemente ridimensionato».
Adesso, con scuole e università chiuse, si rende necessario ricorrere alla didattica a distanza per mantenere vivi i rapporti tra professori e studenti...
«Grazie alla tecnologia si può riuscire a non spezzare il filo della comunicazione. Anche la televisione in Francia si è organizzata per offrire programmi agli studenti. Ma la questione, come tu ben sai, è di fondo: in diversi miei libri ho messo in evidenza i limiti del nostro sistema d’insegnamento. Trovo che non sia adatto alla complessità che viviamo sul piano personale, economico, sociale. Abbiamo un sapere spezzettato in compartimenti stagni, incapace di offrire prospettive unitarie della conoscenza, inadatto ad affrontare in maniera concreta i problemi del presente. I nostri studenti non sono educati a misurarsi con le grandi sfide esistenziali, né con la complessità e l’incertezza di una realtà in costante mutazione. Mi sembra importante prepararsi a capire le interconnessioni: come una crisi sanitaria possa provocare una crisi economica che, a sua volta, produce una crisi sociale e, infine, esistenziale».
Qualche rettore e alcuni professori hanno considerato l’esperienza della pandemia come un’occasione per rilanciare l’insegnamento telematico. Penso sia necessario ricordare che nessuna piattaforma digitale potrà cambiare la vita di un allievo.
«Bisogna distinguere l’eccezionalità imposta dal virus dalle condizioni normali. Oggi non abbiamo scelta. Ma conservare il contatto umano, diretto, tra docenti e discenti è fondamentale. Solo un professore che insegna con passione può influire sulla vita degli studenti. Insegnare è una missione, come quella dei medici: si tratta, in ogni caso, di occuparsi di vite umane, di persone, di futuri cittadini».
Il virus è riuscito a fare esplodere i limiti della rapidità. Il confino nelle nostre case — talvolta doloroso e persino drammatico per la difficoltà di alcune convivenze forzate — ci ha aiutato però a riscoprire l’importanza della lentezza per riflettere, per capire, per ricostruire, laddove è possibile, e coltivare affetti...
«Mi pare indiscutibile. L’epidemia, con le restrizioni che genera, ci ha obbligato a compiere una salutare decelerazione. Io stesso ho notato un forte ridimensionamento del mio ritmo quotidiano. Quando ho lasciato Parigi per Montpellier avevo già notato un notevole cambiamento nelle mie giornate. Adesso, con maggiore coscienza, mi sto (ci stiamo) riappropriando del tempo. Bergson aveva capito bene la differenza tra il tempo vissuto (quello interiore) e il tempo cronometrato (quello esteriore). Riconquistare il tempo interiore è una sfida politica, ma anche etica, esistenziale».
Proprio adesso ci rendiamo conto che leggere libri, ascoltare musica, ammirare opere d’arte è la maniera migliore per coltivare la nostra umanità...
«Non c’è dubbio. Il confinamento ci sta facendo prendere coscienza anche dell’importanza della cultura. Un’occasione —attraverso questi saperi che la nostra società ha chiamato ingiustamente “inutili” perché non producono profitto — per comprendere i limiti del consumismo e della rincorsa senza sosta di denaro e potere. Avremo imparato qualcosa, in questi tempi di epidemia, se sapremo riscoprire e coltivare gli autentici valori della vita: l’amore, l’amicizia, la fraternità, la solidarietà. Valori essenziali che conosciamo da sempre e che da sempre, purtroppo, finiamo per dimenticare».

Nuccio Ordine



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