“Avemmo la gioia di conoscere bene Rouault e di vederlo assai spesso
durante gli anni in cui egli e noi abitavamo a Versailles. Egli era
allora in tutto simile ad alcuni dei suoi Pierrots o dei suoi
pagliacci. (...) Fu da lui che noi imparammo a conoscere quello che può
essere la sensibilità, la lealtà nei confronti della propria arte,
l’eroismo di un grande artista”: così scrive, in una sorta di
autobiografia (I grandi amici, Vita e pensiero, Milano 1975, p.
134) la letterata e mistica Raissa Maritain nel 1941. Usa la prima
persona plurale perché include il marito, il filosofo tomista Jacques
Maritain, ed un po’ anche la sorella Vera; il ricordo si riferisce ai
primi anni del XX secolo. A cosa si deve l’ammirazione sconfinata per
questo loro amico, considerato addirittura “uno dei più grandi pittori
di ogni tempo” (p. 138)?
Innanzitutto, dal punto di vista etico, la sua perseverante ricerca
di coerenza. Rouault (che a ventitré anni aveva già dipinto quadri alla
Rembrandt che gli attiravano fama e soldi) non esitò a perseguire “la
purezza della sua coscienza d’artista”, rinunziando, nonostante i
quattro figli da sfamare, a “fare della pittura che si vende subito,
facilmente a tutti” (p. 134).
La coerenza, però, non è di per sé un titolo di merito. La sua
qualità dipende dai princìpi a cui si resta fedeli. E questi princìpi
sono, sostanzialmente, condivisi dai coniugi Maritain: “le sue più
violente esasperazioni contro la borghesia e contro il nostro ordine
sociale sono in tal modo come delle disillusioni di un’anima presa da un
ordine interiore che essa vuole troppo avidamente ritrovare nelle
strade, nei tribunali e nel metrò” (J. Maritain, Frontiere della poesia e altri saggi, Morcelliana, Brescia 1981, ed. or. 1935, p. 77).
Per quanto essenziali, i pregi etici non giustificherebbero da soli
l’apprezzamento di un pittore in quanto pittore. Leon Bloy, ad esempio,
pur consapevole dello spessore morale del suo giovane amico Rouault, non
gli risparmiava le critiche più feroci dal punto di vista estetico:
“Voi – gli scrive in una lettera del I maggio 1907 – siete attirato
soltanto dal brutto” (cfr. R. Maritain, I grandi amici, cit.,
p. 136). Ma su questo punto i Maritain non se la sentono di condividere
la durezza del comune maestro. Essi riconoscono nella pittura dell’amico
il merito di giocare il tutto per tutto pur di sconfiggere “le forme
regolari di tutti gli accademisti” (p. 137). Come un Cézanne, un
Rousseau, Rouault ha provato “a fare della bellezza con le
deformazioni”. Che è il miracolo della “sovrana presenza della poesia”
(p. 136). Sì, è vero, dipinge quadri che “sull’istante suscitano un
senso di repulsione, ma che poi non si può fare a meno di ammirare” (J.
Maritain, Ricordi e appunti, Morcelliana, Brescia 1973, p. 106).
Vi è, insomma, in Rouault come un parallelismo fra l’inquietudine
etica e l’irrequietezza estetica. Meglio ancora: la sua pittura rompe
gli schemi tradizionali come, e perché, la sua soggettività
insorge contro le strutture socio-culturali dominanti. La sua rivolta
contro le forme canoniche ‘classiche’ è, in un certo senso,
l’espressione plastica della sua intolleranza verso ogni forma di
mediocrità, di conformismo e di ipocrisia. Soprattutto nella fase in cui
si è ispirato alle vetrate delle cattedrali gotiche, egli stava
effettuando nelle arti figurative ciò che i Maritain tentavano, con i
meriti e le ambiguità del caso, nell’ambito filosofico-teologico:
riattualizzare il meglio del Medioevo come antidoto alla decadenza del
Moderno.
Quando i Maritain scrivono la maggior parte delle loro pagine su
Rouault, questo artista ‘primitivo’ - come Chagall apparentemente naif
- non è arrivato a ciò che è considerato uno dei suoi capolavori: la
serie di 58 incisioni su rame note col titolo complessivo di “Miserere”
(pubblicate originariamente dall’autore qualche anno dopo la fine della
seconda guerra mondiale). Una raccolta completa di queste tavole è
custodita nella Galleria d’arte contemporanea della “Cittadella
cristiana” di Assisi (che ne ha curato anche la pubblicazione in un
volume in lingua italiana). Dal 3 al 26 marzo una riproduzione
fotografica delle tavole, realizzata dal maestro Elio Ciol e corredata
da didascalie scritte di pugno dall’artista francese, è stata allestita
a Palermo presso il Tabularium del Loggiato San Bartolomeo
alla Marina. Il tema della mostra didattica itinerante è la passione di
Gesù di Nazareth, in cui il pittore vede simboleggiata la sofferenza che
sfigura le vittime della storia. Ma la tematica religiosa non lo
distrae dalla sua ispirazione originaria e continua: come nelle opere in
cui rappresenta “donne di strada, pagliacci, giudici e megere”, anche
qui egli persegue “il proprio accordo interiore nell’universo della
forma e del colore” (J. Maritain, Le frontiere, cit., p. 79). E
lo persegue andando all’essenziale perché “più un artista è grande, più
egli semplifica, operando una scelta e omettendo” (J. Maritain, Ricordi, cit., p. 107).
Che la mostra passi da Palermo, infine, potrebbe non essere privo di significati.
Innanzitutto s’impone una ragione di carattere generale: la nostra
città ha bisogno di iniezioni di bellezza. Lo storico Paolo Viola, da
poco scomparso, mi diceva che l’aveva scelta – lui piemontese d’origine,
laureato a Pisa, abitante a Roma – perché a suo parere sarebbe una
delle città più belle d’Italia. Ma è imbruttita. Anzi – per evitare di
pensare ad un processo biologico ineluttabile - abbrutita. Quanto
scriveva Vincenzo Consolo ne Le pietre di Pantalica del 1988
resta ancora, per troppi versi, attuale: “Le zone di case lesionate,
pericolanti, fatte evacuare, sono state chiuse da mura di cinta. Dietro
queste fresche mura di tufo, si accumulano le immondizie del mercato,
degli abitanti, le ossa delle macellerie, vi razzolano bambini, cani,
gatti, vi ballano topi. Qui Palermo è una Beirut distrutta da una guerra
che dura ormai da quarant’anni, la guerra del potere mafioso contro i
poveri, i diseredati della città. La guerra contro la civiltà, la
cultura, la decenza” (p. 172).
Ma se la situazione fisica, materiale, è questa, la bellezza di cui
abbiamo bisogno in città come la nostra deve evitare anche solo
l’apparenza della retorica. Dev’essere nuda, schietta, asciutta. Proprio
come i quadri di Rouault che – com’è tipico dell’espressionismo - non
concedono nulla all’eufemismo, all’abbellimento artificioso. E che
aprono gli occhi sulle risorse sepolte in personaggi e paesaggi, ma
attraversandone – con pietoso realismo - le ferite oggettive. Basta
fare un confronto fra questo Miserere e una Via Crucis
‘media’ esposta nelle nostre chiese, dove il Messia sofferente ha i
lineamenti stucchevolmente piacenti di un attore di Hollywood. È un po’
la differenza fra il Gesù di Pasolini e il Gesù di Zeffirelli (e non è
un caso, forse, che Pasolini abbia avuto proprio alla “Cittadella”
d’Assisi l’idea del suo “Vangelo secondo Matteo”). Dico di Pasolini, non
di Mel Gibson perché non si tratta di essere sadicamente truculenti:
l’arte compie la magia di rendere liberatrice la contemplazione persino
delle deformazioni. L’arte di Rouault rispetta la sofferenza dell’uomo
Gesù in tutta la sua cruda concretezza, ma la trasfigura poeticamente:
la fa diventare, per così dire, il prototipo della sofferenza di ogni
uomo. Per questo, davanti a più di una delle tavole esposte, può
capitare che il visitatore avverta la sensazione di essere davanti ad
uno specchio: che rifletta non tanto la sua ‘maschera’ protettiva
quanto la sua anima indifesa.
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