Monday, 9 October 2017

Tirar su bambini come Dio comanda

G. Riva, in Il Sabato, 27 settembre -3 ottobre 1980
Per mia moglie e per me, il rapporto coi figli è il proseguire ciò che la natura, nel suo metodo, ci offre. Un uomo entra nel mondo prima di averlo capito, un figlio è concepito e nasce prima che egli conosca madre e padre e uomini e luoghi. La legge metodologica della natura e che bisogna fare per capire, è che la realtà si capisce soltanto aderendovi. Per capire, bisogna seguire. Bisogna, cioè, entrare in un’esperienza prima ancora di affannarsi in innumerevoli e inconcludenti discussioni su di essa. Questo dunque è il nostro e mio rapporto coi figli, cioè il metodo educativo in uso nella nostra famiglia. Credo sia anche quello della liturgia cattolica, che chiede solo di aderire nonostante i dossettismi liturgici attuali. Credo, soprattutto, che sia anche quello di Cristo: “Vieni e seguimi”. “Vieni e vedrai”.
Indubbiamente un bimbo è predisposto a questo metodo, cioè lo richiede. Egli divora il latte che gli viene dal seno e la pappina che poi gli si prepara, egli appartiene alla presenza reale che i genitori sono attorno a lui. E’, per natura, una capacità obbedienziale. E, come tale, esige che i genitori siano coscienti di ciò che devono dargli, cioè di essere genitori non solo la notte (una volta si diceva che accadesse solo di notte) di tenerezza in cui l’hanno concepito, ma sempre. Siccome il bimbo è un essere che si evolve fino all’uomo, questo sempre va adeguato a quello sviluppo del figlio: è qui che, per noi, sono sorti i problemi, o, meglio, è qui che abbiamo sentito la drammaticità della responsabilità di essere padre e madre.
Un primo problema riguarda l’aspetto, diciamo, di proposta, che è il fondamentale per non rinunciare alla propria responsabilità: ci siamo accorti, per esempio che, durante la messa, non potevamo chiedere ai piccoli di tacere se non dimostravamo quanto fosse vero per noi il partecipare al gesto; e non potevamo dimostrarlo se non era vero, cioè se veramente noi non credevamo all’indispensabilità, nella nostra vita, di tale momento. Coi figli, valgono poco i discorsi o i richiami se non sono suffragati dalla testimonianza personale: il metodo preventivo credo proprio che sia nel vivere prima io ciò che propongo, altrimenti ne verrà un formalismo, mantenuto soltanto finché il figlio è obbligato a stare sotto il tuo tetto e basta. L’esito di questo farisaismo inconsapevole e di vite di genitori asserviti a due inconciliabili padroni è stata ed è ancora purtroppo la defezione massiccia dei figlio (anche di alte personalità del mondo cattolico): ciò che non viene da convinzione è inutile proporlo ai figli, oltre che essere inutile e dannoso da vivere per sé. L’autorità, come dice Mounier, è l’incontro con un appello, è una persona direttamente coinvolta con ciò che propone, è un luogo di riferimento che tenti di incarnare, in tutti gli aspetti della vita, lo stesso valore o richiamo ideale ai valori che rivolge ed è tenuto a rivolgere (in quanto tramite della vita: e la vita non è solo respirare) al figlio. La diserzione dalla responsabilità di educare i figli (caldamente appoggiata dallo stato italiano, gestito da democristiani che sono la negazione di questa preoccupazione) è diserzione da sé, è un insulto irresponsabile contro la società, è un grave delitto contro la carità (sulla quale saremo giudicati, e non da tribunali della mentalità dominante ma da quello di Dio, se di tribunale si può parlare per la condanna alla disperazione totale che già per molti è iniziata).
Un’ altra responsabilità del gioioso peso di genitori è quella della discrezione. La natura infatti è discreta: si dice che “non facit saltus” e, perciò, non si può far crescere un albero tirandone i rami, soprattutto se tale albero è la coscienza: essa si sviluppa secondo tempi ed esiti diversi e, più i figli dimostrano una propria intelligenza e volontà, più la discrezione emerge nei termini di proposta rivolta alla libertà altrui. Lo scopo dell’educazione è proprio quello di far emergere questa libertà, intelligente e capace di lavoro.

Si arriva ad un punto, con un figlio, che ci si ritrova, marito e moglie, col proprio iniziale compito di maturazione personale e con un amico adulto in più, col quale camminare insieme. Noi abbiamo cinque figli e- figli miei, perdonatemi l’accenno- se mia moglie avesse abortito, avremmo perso in vita e vitalità noi stessi, perché ognuno di loro ha avuto una funzione, e l’ha ancora: proprio per me e per noi, oltre che per il mondo. Un ulteriore senso di responsabilità nasce, per noi, dal guardare la differente età dei nostri figli (il maggiore ha dodici anni e il minore ne ha quattro): ma il problema di cui voglio parlare può essere evidente considerando anche l’evoluzione, nel tempo, di un figlio unico. La responsabilità, cioè la risposta da dare, è quella di riuscire genialmente ad adeguare i valori, gli stessi, ad ogni istante dell’evolutività continua, delle diverse età, dei diversi ambienti, stati d’animo e problemi dei figli. E’ una faccenda che non lascia mai pienamente tranquilli, perché è fattore fondamentale per l’acquisizione di una coscienza, di un rendersi ragione, di un’adesione intelligente dei figli.
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Crecer a los hijos como Dios manda 


 Este artículo fue publicado en Italia en el periódico Il Sabato (27 de septiembre - 8 de octubre de 1980).

Para mi esposa y para mí, la relación con los hijos consiste en proseguir con lo que la naturaleza nos ofrece como su método. Un hombre entra en el mundo antes de haberlo entendido; un hijo es concebido y nace antes de conocer a su madre y a su padre, a los hombres y los lugares. La ley metodológica de la naturaleza indica que para entender es necesario hallarse, y esto indica que la realidad se entiende solamente adhiriéndose a ella. Para entender es necesario seguir, o sea es necesario entrar en una experiencia antes de afanarse en innumerables e inconcluyentes discusiones sobre ella. Entonces, la relación mía y nuestra con los hijos, es decir el método educativo adoptado en nuestra familia, sigue esta horma. Creo que sea la misma de la liturgia católica, que pide solo adherirse, a pesar de aquellos hombres que hoy en día siguen unos litúrgicos pensamientos inspirados en Dossetti. Creo, sobre todo, que también sea el mismo método de Cristo: “Ven y sígueme” y “Ven y verás”.

Indudablemente, un niño está predispuesto a este método, o sea lo pide. Él devora la leche que viene del seno y la papilla que luego se le prepara, y él pertenece a la presencia real de sus padres que lo ciñen. La del niño es, por naturaleza, una capacidad de obediencia y, como tal, exige que los padres sean conscientes de lo que deben darle, o sea que sean sus padres no sólo durante la noche (hace tiempo se decía que esto ocurría sólo en las noches) de ternura en que lo han concebido, sino siempre. Como el niño es un ser que evoluciona hasta hacerse hombre, siempre hay que adecuar esto al desarrollo del hijo: es aquí que, para nosotros, han surgido los problemas, o mejor dicho, es aquí que hemos sentido lo dramático de la responsabilidad de ser padre y madre.

Un primer problema se refiere al aspecto, digamos, de propuesta, que es fundamental para no renunciar a nuestra responsabilidad personal: por ejemplo, nos dimos cuenta que, durante la misa, no podíamos pedir a los pequeños de callarse si no les demostrábamos cuánto fuese verdaderamente importante para nosotros participar a ese gesto; y no podíamos demostrárselos si no era verdadero, es decir, si verdaderamente nosotros no creíamos que ese momento era indispensable para nuestra vida. Con los hijos valen poco los discursos o los reproches si no son acompañados por el testimonio personal: el método preventivo creo consista en que yo ya vivo lo que les propongo; de lo contrario, se vuelve un formalismo, que resiste sólo hasta que el hijo esté obligado a quedarse bajo tu techo y luego se acaba. El éxito de este fariseísmo inconsciente en la vida de padres que son doblegados frente a dos inconciliables señores ha sido y es todavía, desafortunadamente, la causa de la deserción de los hijos (también de altas personalidades del mundo católico): lo que no brota de la convicción personal es inútil proponerlo a los hijos, además de ser inútil y dañino para la vida di quien así actúa. La autoridad, como dice Mounier, es el encuentro con una petición, y es una persona directamente involucrada con lo que propone; es un punto de referencia que intenta encarnar, en todos los aspectos de la vida, el mismo valor o el llamado ideal a los valores que dicha autoridad vive y que por ello indica al hijo (en cuanto es él el trámite de la vida: y la vida no es sólo respirar). Desertar de la responsabilidad de educar a los hijos (vivamente apoyada por el Estado italiano, manejado por democristianos que son la negación de esta preocupación) es una deserción de sí mismo, es un insulto irresponsable contra la sociedad, es un grave delito en contra de la caridad (y sobre la caridad seremos juzgados,  no por los tribunales de la mentalidad dominante sino por el tribunal de Dios, si de un tribunal se puede hablar en relación con esta condena a la desesperación total, que para muchos ya ha comenzado).

Hay otra responsabilidad en la dulce carga de ser padres, y su nombre es “discreción”. La naturaleza, de hecho, es discreta: se dice que non facit saltus y, de hecho, no se puede crecer un árbol jalándole las ramas, sobre todo si ese árbol es la consciencia, que se desarrolla según tiempos y estilos propios: más los hijos demuestran una inteligencia y voluntad propia, más la discreción emerge en términos de propuesta dirigida hacia un ser que es libre. El fin de la educación es hacer posible que emerja esta libertad, y que sea inteligente y capaz de trabajo.
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Monday, 3 July 2017

The great teachers to Tonalestate 2017

proud to be barbarian!


Tra le montagne più belle del mondo, ai confini tra l’Italia e l’Austria, il Tonalestate ci invita, anche quest’anno, a passare le vacanze in sua compagnia e, all’interno di queste vacanze, a incontrare le esperienze di intellettuali, artisti, letterati, scienziati, uomini di cultura e di azione che dedicano la loro vita e i loro talenti per rendere il mondo più umano e più abitabile.
Quest’anno, il Tonalestate riesce a darci  un benefico stupore, sia per la scelta del tema, – “la ragione” – , antichissimo quasi quanto il mondo e oggi di urgente necessità (“la patologia della ragione non è stata ancora scritta” dice un noto filosofo contemporaneo), sia per la stravagante, inusuale e respirante indocilità del manifesto: un invito, al contempo laico e santo, che esce dalla voce e dai colori prorompenti e ricchi di domanda di due uomini fuori del comune, Cesare Pavese e Vincent Van Gogh, uomini dotati di insolito talento, di grande intelligenza e di vera umanità, i quali, con la loro lunga e provata pazienza, ci aprono gli occhi su molti nostri modi di vivere che non hanno senso.
Siamo d’accordo con Jean Delumeau quando afferma che “nous ne sommes pas un siècle à paradis”: quali scelte, dunque, sono ragionevoli e quali sono irragionevoli in un tempo come il nostro?  Sappiamo di non voler essere né complici né vittime di un contesto sociale che sembra muoversi con l’unico scopo di rovinarci le notti, di distruggerci i giorni e di farci vivere un innaturale isolamento, un contesto che spesso ci assorda e ci confonde. Con le immagini, la musica e gli slogan ad effetto che han preso il posto della parola e pertanto del dialogo, qualcuno o qualcosa (un tempo, si diceva “il sistema”) ci spinge a starcene a casa nostra, a coltivare un tipo speciale di miseria e di orticello; ci spinge a forme di protesta che si sa che son perdenti in partenza;  ci spinge a diffidare dell’altro e degli altri; ci spinge ad avere un profondissimo rispetto per l’indifferenza; ci spinge a discutere su questioni che niente hanno a che vedere col bene comune e persino ci obbliga a batterci per una patria che non è la nostra. In che modo potremo non essere né vittime né complici di un sistema tanto lontano da quel paradiso cui il cuore di ogni uomo anela magari senza saperlo?
Che tipo di “barbaro” saprà far crollare il potere incalcolabile delle nefaste corporazioni (e dei governi purtroppo loro solidi alleati) che decidono chi deve soffrire e chi no, chi deve mangiare e chi no, chi deve soccombere ai bombardamenti e chi invece deve cercare di vincere la noia costi quel che costi? Che tipo di barbaro saprà consolare il disagio profondo di chi è obbligato a migrare non certo per turismo ma nella speranza di incontrare pane, pace e lavoro? Il Tonalestate, nel suo manifesto, alza un inno di ringraziamento a questo sconosciuto “barbaro” che non vive come un bruto. Lo fa per tante ragioni, tutte da scoprire insieme. E vuole anche, in questo modo, rendere omaggio a un bellissimo giornale, dal titolo appunto “Il barbaro”, che il professor Giovanni Riva fondò molti anni fa, anticipando così quel feel the bern che seppe allietarci e ci allieta con la sua operativa e incrollabile speranza.