Parte III
Si racconta che l’iniziato nelle antiche iniziazioni alle religioni misteriche doveva sottomettersi a una serie di prove. Il maestro è diverso anche in questo perché, per acquisire il grado supremo, deve passare attraverso prove non esenti da difficoltà, ma in seguito si trova in una prova senza fine, a ogni momento. È una condizione che diventa interiore ma a a condizione di essere acquisita a ogni istante oppure può perdersi: molti saranno stati maestri veri e propri durante un periodo della loro vita e in seguito non potranno continuare ad esserlo. Allora l’essere stati maestri resta come qualcosa di essenziale della persona, senza dubbio, eppure non la definisce completamente: quando scomparirà l’essenziale, si dirà, in quel resoconto biografico che la morte non perdona, che egli è stato anche maestro e se in seguito non è stato nessun altra cosa, resterà come qualcuno che si è fermato a metà strada. A meno che non abbia smesso di essere maestro in un modo per esserlo in un altro, giacché è possibile e forse necessario che in una società il magistero possa essere esercitato in molti modi.
È proprio così al punto che all’interno della stessa società in cui il maestro vive, ci sono funzioni confinanti con la sua che talvolta coincidono felicemente con essa o che sembrano invaderla insieme ad altre. Infatti non accade per puro caso che alcuni regimi politici, alcuni uomini di stato si scontrino con il magistero consolidato e anche con quello che si sta realizzando. Il fatto è che il corpo insegnante nella sua integrità si muove all’interno di dimensioni che possiamo chiamare politiche. Questo di fatto accade per diversi motivi, legittimi o no, ma accade in alcuni casi in ragione di qualche elemento che è l’unico che ci interessa realizzare qui: perché un certo Stato, attraverso alcuni dei suoi rappresentanti invada indebitamente la condizione del maestro e pertanto anche quella del discepolo. Invece, quando lo Stato attraverso i suoi massimi rappresentanti esercita una funzione educativa si arriva più in là – anche qui abbiamo il più in là di quanto uno Stato possa raggiungere.
Non è stato possibile concepire la teoria di uno Stato perfetto – perfetto in quanto all’intenzione – a partire dalla Repubblica di Platone, senza concepirlo come Stato educatore. D’altra parte, non è stato neppure possibile disegnare un’educazione in tutti i suoi gradi senza tenere presente l’esistenza dello stato, senza tenere conto di ciò che i Greci intendevano per “Polis”. Perché tanto il politico come il maestro sono mediatori, come lo sono il pensatore e l’artista – il poeta. Sono però due gruppi che fanno mediazione in modo diverso. Ed è quel che dobbiamo precisare.
Ogni essere umano che crea e che fa qualcosa è mediatore iniziando dal fatto più comune e diffuso di avere figli e allevarli. Padre e Madre sono mediatori e diremmo anche che sono mediatori per eccellenza: attraverso di essi la vita continua e anche la cultura di cui fanno parte, i lignaggio, la città e quello che la presiede. Non ci è possibile dilungarci qui sulla considerazione della funzione mediatrice dell’uomo in quanto tale: è altra cosa che l’esercizio della sua essenza trascendente. Trascendere è innanzitutto questo: mediare, andare e venire tra luoghi estremi e se non è una caratteristica peculiare dell’essere umano, l’uomo si ridurrà a una creatura non molto diversa dalle altre, e non godrà più della sua situazione singolare nel mondo.
Dal momento che la vocazione acutizza, estremizza, eleva alla perfezione l’essenziale dell’uomo, vuol dire che ogni vocazione è mediatrice e che si tratta in questo caso di vedere in quale forma lo è la vocazione di essere maestro, e se per caso non lo sia in maniera eccelsa.
Il filosofo, il saggio, l’artista, sono mediatori di una specie confinante con quella del maestro perché trasmettono qualcosa, verità, scienza, bellezza; ma non in una forma personale, diretta, ma attraverso l’opera, un’opera che ha una speciale forma di esistenza, quella che corrisponde a ciò che Husserl ha chiamato “oggetti ideali”, dove oggetto deve intendersi come qualcosa dotato di autonomia – cosa che dipende dalla sua forma raggiunta – e ideale come non trovato nella realtà che ci si dà. Essi mediano tra la ragione, la verità, il bene, la bellezza e la vita umana sempre, è chiaro, all’interno dei confini di una società; nel recinto di una società dalla quale un giorno trasmigrano a un’altra che neppure era nata quando quell’opera fu compiuta.
Ma la mediazione esercitata dal maestro ha un’ultima specificità che si riferisce all’essere – all’essere del vivente.
È risaputo che nella lingua greca il verbo essere prende come significato due verbi che procedono da due radici diverse, eimie fyuche significa crescere, crescere essendo. Radice da dove proviene fysis, natura. Ebbene il maestro è mediatore rispetto all’essere mentre cresce, e crescere per l’uomo non è solo aumentare ma anche integrarsi, vale a dire qualcosa di più rispetto a svilupparsi, così com’è per la pianta e per l’animale. Il maestro è mediatore senza alcun dubbio tra il sapere e l’ignoranza, tra la luce della ragione e la confusione in cui inizialmente ogni uomo è solito stare. Ma lo è in funzione del fatto che la creatura umana ha bisogno di questi saperi multipli e diversi per integrarsi, per crescere in senso propriamente umano, per essere; in ragione di ciò è necessario che la luce della ragione si accenda nella coscienza e nell’animo e che, una volta accesa, si condensi, che germini, diremmo. La crescita umana in questo non si distingue dagli altri viventi: parte da un germe che si va convertendo in forma organica; soltanto che nell’uomo questo germe o è doppio o è uno che include vita, ragione e l’esigenza di arrivare a essere integralmente persona. Ed è giustamente lì, dove si esercita l’azione del maestro, da dove si distacca e dove torna una e un’altra volta ancora questo movimento circolare che descrive ogni azione mediatrice. Così il maestro dell’essere umano, finché questi è un essere che cresce, deve fare discendere, per così dire, sulla ragione bene e verità, anche armonia e ordine, fondamenti della bellezza giustamente in funzione dell’essere; mediatore prima di tutto e soprattutto dell’essere stesso, di quell’essere – problema persistente della filosofia – che, guardato da lontano, sembra inaccessibile e che più tardi fruttifica nell’uomo come se fosse nel suo terreno di elezione.
Speriamo quindi che sia stato chiarito quel che enunciavamo all’inizio di queste pagine, ossia; solamente un pensiero che riscatti l’essere e la ragione, la verità e la vita, per l’esistenza concreta dell’uomo, sarebbe in condizione di scorgere e sostenere il fenomeno della vocazione che sembra tanto straordinario e che risulta appartenere a tutti, nonostante non si sappia. E che la vocazione di maestro è tra tutte la vocazione più indispensabile, la più prossima a quella dell’autore di una vita, perché la conduce alla sua piena realizzazione.
Novembre 1965
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