Wednesday 23 February 2011

L’educazione in Edith Stein

Il problema educativo è molto sentito dalla Stein ed è per tale motivo che lo affronta in molte opere, con grande competenza e rigore d’indagine.
Prima di prendere in esame la questione è necessario, tuttavia, soffermarsi sul bagaglio culturale fenomenologico che la Stein possedeva e che ha indubbiamente utilizzato, in maniera più o meno consapevole, nell’indagine delle questioni in esame.
Husserl, fondatore della fenomenologia, di cui la Stein è prima allieva e poi assistente, non ha affrontato direttamente questioni squisitamente educative[1], ma all’interno delle sue riflessioni vi sono delle indicazioni che sono estremamente interessanti se utilizzate sotto l’aspetto eminentemente formativo. Infatti, una prima questione a cui la fenomenologia potrebbe immediatamente dare risposta è quella della natura della filosofia dell’educazione, una disciplina piuttosto complessa in quanto si potrebbe correre il rischio di confonderla con la pedagogia, i cui contributi, tuttavia, per quanto non propriamente teorici, hanno avuto di frequente un notevole impatto sulle questioni educative generali. 




Dal punto di vista fenomenologico è necessario comprendere, in breve, e con tutti i limiti che ciò comporta, i due termini: filosofia ed educazione. Con il primo termine, al di là di quello che ci ha consegnato una tradizione lunga, implica una considerazione disinteressata, razionale di tutti gli aspetti della realtà e dell’esperienza dell’essere umano. Un’analisi, quindi, lucida, teoretica, con un evidente distacco dalla realtà. Dall’altro lato, invece, il termine educazione, implica in primis la questione di una relazione da soggetto a soggetto, relazione che si dà in un particolare contesto storico, culturale, sociale, per cui si verifica necessariamente un’apertura ed una contaminazione con aspetti più concreti, da parte di un sapere che ha sempre avuto molte riserve ad entrare in un rapporto con la vita. Infatti, è all’interno di tale ambito che diviene necessario comprendere il rapporto natura-cultura, la questione dei valori, la relazione tra educazione e comunità, educazione e società, educazione ed istituzione e così via. Pertanto potremmo definire la filosofia dell’educazione una riflessione oggettiva sulle questioni relative alla formazione, che non disdegna un’apertura al concreto ed alla complessità ivi connessa, senza però venir meno ad una modalità d’indagine rigorosa, volta a cogliere le questioni essenziali ed i nodi cruciali e problematici dell’articolata e complessa realtà formativa.
Per la Stein riflettere sulla formazione vuol dire in primo luogo prendere in esame la relazione. Infatti, all’interno di un rapporto educativo si dà sempre una relazione, che non è mai unidirezionale, dall’educatore all’educando o dall’allievo al maestro, ma è una relazione connotata dalla reciprocità delle azioni e dei rimandi. E’ un continuo movimento da soggetto a soggetto, in cui l’altro non può mai essere definito o pensato come oggetto, neppure in sede teorica, altrimenti c’è il rischio di far venir meno una relazione che voglia definirsi formativa. Ma la questione determinante è: dove si fonda questa possibilità della relazione? Perché per l’essere umano è possibile parlare di formazione e non soltanto di allevamento o di addestramento come ad esempio accade per gli animali? Una risposta a tale quesito può offrila ancora la fenomenologia, che ha a lungo esaminato la struttura dell’essere umano, prendendone in esame tutti gli aspetti, dalla psiche al corpo e da questo all’anima ed allo spirito, senza tralasciare tutti i momenti in cui la relazione tra queste varie componenti diviene stretta ed inscindibile. Per essere sintetici diremo che l’essere umano, dopo l`analisi fenomenologica, appare come un essere strutturalmente aperto, per tale motivo è per lui possibile la relazione educativa.

All’interno di una relazione, c’è la necessità, soprattutto da parte dell’educatore, di comprendere l’altro senza pregiudizio o precomprensioni. Vi è bisogno di una sospensione del giudizio, un’epoché per capire veramente come stanno le cose, per penetrare nelle cose stesse, zu den Sachen selbst, secondo il noto motto husserliano. L’epoché ha, dunque, una profonda valenza educativa. In fondo nel momento in cui entriamo in rapporto con un altro essere umano è necessario, per cercare di comprenderlo così com’è, mettere da parte il proprio modo di pensare, non farsi suggestionare dai modi di agire, di parlare, di porsi dell’altro, altrimenti non sarò mai in grado di comprenderlo né di capire, nel momento in cui ci si trova in una relazione educativa, chi veramente sia la persona che si ha dinanzi, quali le sue potenzialità, il suo modo di vedere, di porsi di fronte alle vita etc.. E se non faccio questo, in qualità di educatore non sarò neppure in grado di aiutare, orientare, dirigere quanti mi vengono affidati. Quindi, l’epoché ha una valenza estrememente interessante ed utile soprattutto per l’educatore in quanto diviene lo strumento che consente di mettere continuamente in discussione, di visionare nuovamente da capo il proprio modo di fare e vedere le cose. Senza una continua messa in discussione dei propri punti di vista difficilmente si può essere un buon educatore, difficilmente ci si potrà entrare in una corretta relazione educativa ed orientarla rettamente.
E tale punto di vista è estremamente importante soprattutto quando ci troviamo di fronte a ragazzi difficili, caratteriali, a malati psichici, a persone che hanno commesso reati, perché per quanto l’analisi sia anche di carattere materiale o sociale, la fenomenologia non tralascia di mettere in relazione il soggetto con i propri comportamenti negativi evidenziati, con la sua visione del mondo, con i propri vissuti ed atti, offrendo la possibilità di mostrare, non solo le modalità errate del comportamento, ma soprattutto nuove possibilità esperienziali che lo motivino ad un possibile cambiamento.

Ovviamente tale aspetto è di grande portata educativa, sotto più punti di vista: l’educatore, infatti, deve potersi mettere al posto dell’educando, poterlo comprendere, capire chi sia, quali le sue potenzialità, quali sia la sua estrazione socio-culturale e dunque la sua visione del mondo etc., e questo non per adeguarsi all’educando, ma per comprenderlo e procedere oltre, per accompagnarlo, indirizzarlo verso mete adeguate alle sue più proprie possibilità o a quanto egli stesso possiede nel nucleo, in quella parte più propria e profonda di ogni essere umano. Ma è anche fondamentale che l’educando comprenda e sia consapevole della reciprocità del rapporto empatico, che cioè sia in grado di porsi in maniera adeguata e corretta con l’altro da sé.

La Stein ha una visione dell’essere umano estremamente positiva e feconda, essere umano a cui va inculcato un profondo senso di responsabilità e di un profondo rispetto per se stesso ma anche degli altri.

Il problema educativo, per la Stein non nasce immediatamente, ma si trova a doverlo affrontare in primis come insegnante di scuola superiore femminile e poi anche quando esamina la questione delle donne e del femminile a partire dagli anni Trenta in poi quando venne invitata da diverse associazioni femministe per discutere problemi riguardanti le donne, a cui ovviamente era connesso anche quello della loro formazione.
Ogni azione educativa è sempre accompagnata da una particolare visione del mondo, concezione dell’essere umano, dei suoi compiti delle sue possibilità di una formazione pratica. E dunque ogni teoria della formazione umana, che E. Stein definisce pedagogia, ha alle spalle una metafisica, un’ immagine generale del mondo e l’idea dell’essere umano è parte integrante di tale metafisica. Quindi un educatore/trice non può essere tale senza avere in maniera anche più o meno consapevole, un’antropologia, un’immagine del mondo. Ovviamente la Stein elabora una metafisica cristiana e ne tira le conseguenze. «L’antropologia cristiana – scrive- condivide con l’umanesimo idealista la convinzione circa la bontà della natura umana, la libertà dell’uomo, la vocazione alla perfezione, la sua posizione di responsabilità all’interno della totalità unitaria del genere umano. Tuttavia poggia su un diverso fondamento. L’uomo è buono perché è stato creato da Dio, creato a sua immagine e questo in un senso che lo distingue da tutte le creture terrene. Nel suo spirito è impressa l’immagine della Trinità»[2]. Allora se si è consapevoli che l’essere umano è creatura divina si è anche consapevoli che il fine ultimo dell’educazione consista nell’autentica natura umana e l’autentica individualità, cioè in altri termini che l’essere umano autentico corrisponda all’archetipo divino.

La natura spirituale dell’uomo, che è ragione e libertà, necessita di un’azione spirituale dell’atto educativo, cioè l’educatore e l’allievo devono tener conto della crescita graduale della spiritualità, in cui l’attività di guida dell’educatore deve lasciare sempre più spazio all’attività autonoma dell’educando per renderlo completamente autonomo consentirgli l’autoformazione. L’educatore, ovviamente ha dei limiti, in primo luogo nella natura dell’allievo, che non tutto può raggiungere o realizzare, in quanto ognuno possiede un proprio nucleo con relative potenzialità che se adeguatamente stimolate possono poi diventare habitus; inoltre l’educatore può anche vivere l’insuccesso della sua azione, può essere rifiutato, veder resi vani i propri gli sforzi così come può anche non essere all’altezza della compresione dell’allievo perché, da un lato, l’individualità è troppo profonda e misteriosa , ma anche il contesto storico muta per cui mutano anche i comportamenti che possono non essere totalmente compresi dalle generazioni precedenti. Per la Stein, allora, l’educatore cattolico ha una grande responsabilità, in quanto deve avere un sacro rispetto di fronte ai giovani che gli vengono affidati. Essi sono creati da Dio e portano in sé un destino divino. Ogni intervento arbitrario sarebbe un’intrusione nel piano divino e, se è consapevole di ciò, mirerà a risvegliare la fede e solo così sarà in grado di assolvere una corretta prassi educativa che ha lo scopo di condurre dall’educazione all’autoformazione, di essere disegnato dalle mani di Dio e di avere un destino da lui donato. L’educatore deve poter mostrare all’educando l’esempio di Cristo, modello per ogni educatore/trice cristiano/a, il che non vuol dire che seguendo il suo esempio ci si conformi tutti a certi comportamenti di vita, non vuol dire perdere la propria più intima individualità, perché chi si pone la propria vita nelle mani di Dio può ben star certo che diverrà ciò che Dio ha predisposto per lui. «Formare degli esseri umani autentici- scrive la Stein – significa formarli ad immagine di Cristo». L’educatore, però, non conseguirà mai questo scopo mediante un insegnamento verbale, dal momento che per poter educare esseri umani autentici, deve essere egli stesso un essere umano autentico. E ciò gli riuscirà tanto più facilmente quanto più egli stesso si sarà conformato all’imitazione di Cristo.

Educare un essere umano, però, vuol dire educare uomini e donne, per cui se c’è una differenza fisica che investe anche la dimensione spirituale, vuol dire che saranno necessarie anche dei differenti interventi educativi. Formare uomini è diverso che formare donne, in quanto ci troviamo di fronte a differenti bisogni educativi e di ciò la Stein era pienamente consapevole. Di tali questioni parleremo nel prossimamente.













[1] P. Bertolini ritiene che il pensiero di Husserl, per quanto non si sia mai occupato della problematica educativa nella sua specificità tecnica, possa in qualche modo «essere letto (…) come una grande moderna paideia». Cfr. , P.Bertolini, L’esistere pedagogico. Ragioni e limiti di una pedagogia come scienza fenomenologicamente fondata, La Nuova Italia, Milano 2002, p. 335

[2] E. Stein, La struttura della persona umana, tr. di M. D’Ambra, a cura di A.Ales Bello, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p.45.

No comments:

Post a Comment