Il 15 agosto 1945 i giapponesi lasciarono la Corea dopo l’occupazione protrattasi dal 1910.
In Corea l’espansionismo nipponico aveva operato un ampio sfruttamento delle risorse e della forza lavoro costringendo i coreani a lavorare in condizioni impossibili nelle uniche fabbriche costruite dai giapponesi per al costruzione di armi. L’intervento nipponico in Corea doveva, infatti, essere il primo passo di una lunga conquista che avrebbe dovuto portare i giapponesi sino alla Cina.
A questo scopo, per mantenere la loro libertà di manovra nel paese, i giapponesi avevano instaurato una politica di radicale repressione fisica e culturale. Se da un lato, infatti, non esitavano a stroncare ogni espressione della resistenza che i contadini coreani sin dall’inizio intrapresero, dall’altro lato si preoccuparono di rompere l’unità culturale e perciò politica del popolo coreano, vietando l’insegnamento della storia nelle poche scuole allora esistenti e, fatto ancor più significativo, vietando l’uso della stessa lingua coreana.
Entrambi i provvedimenti, di fatto, non avranno alcuna ripercussione. Insegnare la storia del proprio paese diventa infatti il primo compito che i coreani impegnati in un lavoro e in una lotta di liberazione si assumeranno: diventa il primo compito politico, il primo tentativo cioè di contrapporre all’imperialismo giapponese l’espressione dell’unità di popolo e della sua passione per la liberazione del paese.
Così, lo studio fatto insieme della storia e della geografia della propria patria, sollecita i coreani a ritrovarsi nelle case e a gustare il fatto di poter parlare nella loro lingua della liberazione del proprio paese, degli sforzi necessari da parte di tutti per ottenerla, del compito arduo e avvincente assegnato a ciascuno.
La Corea di oggi guarda a questi anni come agli albori della propria tradizione rivoluzionaria, come all’inizio di quel movimento popolare che ha portato alla Corea di oggi.
Un possibile fraintendimento da dissipare
Gli anni che abbiamo considerato come gli albori della tradizione rivoluzionaria sono il presupposto e la prima messa in pratica del grande lavoro educativo che si svolge in Corea.
Educare significa trasmettere un’esperienza di vita e di liberazione. Non si può parlare dell’educazione e della scuola in Corea senza riferirsi alla storia della liberazione del popolo coreano dal dominio giapponese. Prima di descrivere brevemente le tappe di questa storia vogliamo sbarazzare il campo da un fraintendimento, in cui potrebbe incorrere una lettura troppo “europea”di quanto abbiamo cercato di esporre e, in fondo, di tutto questo libro.
La Corea ha compito una lunga lotta di liberazione di un popolo, in questa lotta ha trovato un leader: Kim Il Sung.
La descrizione della lotta e delle esperienze di liberazione coreane si rifà continuamente alla storia di Kim Il Sung e della sua famiglia. Prima di considerare questo modo coreano di “fare storia”, occorre renderci conto della novità dell’itinerario storico-politico della Corea rispetto all’Europa moderna.
Ultimamente l’Europa non ha fatto esperienza di cosa possa significare un movimento di liberazione di popolo. Non ha fatto esperienza di cosa significhi un’espropriazione”radicale della propria vita politica, economica e culturale.
La società europea o se vogliamo più particolarmente l società italiana ha solo sperimentato la crisi del sistema capitalistico. Intendiamo il processo attraverso cui la società capitalista pone continuamente nuovi bisogni e, in particolare, presenta questi nuovi bisogni come promesse di un futuro diverso alle classi oppresse.
Non rispondendo a bisogni posti e aprendone continuamente dei nuovi la società e il suo modo di produzione mette in contraddizione lo stesso sistema economico e lo stesso orizzonte ideologico che lo difende.
La crisi capitalista per risolversi ha bisogno di una unità ideologica ricostruita dall’alto e fondata sulla paura del disordine e del caos. Possono così nascere i fascismi, i cosiddetti stati di eccezione del capitalismo, ecc.
D’altra parte il movimento operaio e contadino, pur mostrando alla base il continuo riproporsi di una radicale istanza di liberazione, viene sempre più investito della stessa logica della società che dovrebbe mettere in crisi.
La spartizione di un potere e non la formazione di una nuova società con la scelta di un nuovo modo di produzione diviene la linea delle grandi sinistre europee.
Basterebbe soffermarsi un solo momento sulla distanza che intercorre tra la faticosa ricostruzione coreana e la modernizzazione del capitale europeo tramite una riforma del capitale di stato con piena conferma della vocazione imperialista del capitale stesso, per darci un primo fotogramma allucinante della distanza che intercorre tra le due storie in questione.
Non possiamo realmente qui fermarci ad analizzare il fenomeno del processo capitalista dell’URSS; vorremmo solo che fosse evidente, al di là delle grandi differenze di partenza e di dinamica storica, che con l’URSS non cambia il panorama economico politico e, sempre più, culturale rispetto al resto d’Europa.
Tutto questo per confermare la nostra distanza da un’esperienza di lavoro e di lotta che è riuscito a vedere un popolo unito capace di educare chi si trovava in oggettive posizioni di privilegio e di accomodamento nei confronti del regime imperialista, ad una riscoperta del valore politico della comune liberazione e costruzione del proprio paese.
Un leader in questo caso non è bandiera ideologica e strumento di un ordine repressivo per censurare le crisi poste dallo stesso sistema e riuscire società divise dal modo di produzione così come da gestioni burocratico-poliziesche.
Un leader può realmente rientrare nella grande esigenza che i popoli hanno di non seguire un’idea astratta ma una idea di vita, un’esperienza di liberazione che se da un lato riguarda una guerra da compiere e una società da ricostruire, dall’alto deve poter essere subito iniziata, subito vissuta nella prigionia o nella terra d’esilio.
Il leader non è semplicemente il fabbricatore di discorsi, ma il segno di chi già vive. Un segno che aiuta tutti nella propria situazione a svolgere un cambiamento della propria vita e ad iniziare una nuova qualità del vivere e del fare politica.
Ma una vita non esiste senza una storia, una liberazione non può mai essere inventata a tavolino.
La personalità umana e politica anche di un capo non investe , ma medita e cerca di comunicare un’esperienza divenuta matura (per condizioni storiche concrete) che viveva già sulle proprie ossa e sulla tradizione del proprio popolo.
Una famiglia di un leader può così essere il simbolo di tutta l’esperienza di liberazione sofferta in ogni famiglia, in ogni villaggio o borgata di un intero paese.
Resta ugualmente alla nostra pur contraddittoria e avvilita società occidentale un patrimonio di esperienza educativa o di esperienze comunitarie cristiane che ci fanno pensare quanto la verità di ciò che abbiamo descritto sia una verità difficile.
Kim Il Sung è di fatto un leader religioso, se per religione non si intende ideologia ma desiderio di liberazione dell’uomo e di popolo. Kim Il Sung è un saggio e un padre: quanta saggezza occorre per restare tale, quanta possibilità di tirannide, di abolizione di esperienze di liberazione non riconosciute politicamente!
Quando questo avvenisse l’inizio di un nuovo svuotamento, di una demagogia, di un terrorismo senza uguali invaderebbe la vita di un paese.
Tutto questo non toglierebbe mai la genuinità e l’insegnamento della politica e dell’eroismo di un popolo, sarebbe invece il tradimento dell’istanza di liberazione vissuta e rischiata dal popolo stesso.
Quando un simile tradimento avviene, sia dopo lunghi anni, sia come un’orrenda termite alla radice del processo stesso, non lo si può giudicare se non col tempo e con il coinvolgimento con l’esperienza del paese.
È con questa avvertenza che volevamo sbarazzare una meccanica lettura del rapporto tra l’unità di un popolo e il suo leader.
Ai suoi albori la tradizione rivoluzionaria coreana coincide con le vicende della famiglia del leader kim Il Sung. Lo zio, ardente rivoluzionario, morirà sotto le torture dei giapponesi; il più giovane dei fratelli di Kim Il Sung muore per le stesse ragioni all’età di vent’anni. Il padre stesso, fervente patriota, fonderà nel 1917 l’”Associazione nazionale coreana”, un’organizzazione clandestina anti-giapponese. Essa si proponeva di elaborare le tappe per una lotta di liberazione dall’imperialismo nipponico e già da allora seppe individuare, ancor prima del marxismo-leninismo il punto nodale della lotta di liberazione: il fatto cioè che solo la combinazione del fatto politico con il fatto militare avrebbe portato alla vittoria.
No comments:
Post a Comment