Tuesday, 6 November 2012

JEAN MARIE, L’ULTIMO TESTIMONE DI TIBHIRINE

di Giorgio Fornoni
I monaci di Tibhirine, balzarono alla ribalta nel 2010 quando un film: "Des hommes et des Dieux (uomini di Dio)" racconto' al mondo la storia e gli avvenimenti di un gruppo di nove monaci "trappisti" che vivevano ad un centinaio di km. da Algeri, a Tibhirine infatti, avevano deciso di vivere una vita monastica di cristianesimo in territorio musulmano. Ma quello era il tempo della GIA (gruppi islamici armati). Gruppi integralisti islamici si armarono e portarono terrore in molti territori algerini.
Nel 1993, la vigilia di Natale, ricevettero visita dai terroristi e nel 1996, la notte tra il 26 e il 27 marzo sette di loro vennero rapiti. E' due mesi dopo che la notizia fece il giro del mondo. I sette monaci vennero uccisi, le loro teste si ritrovarono ad un crocevia qualche giorno dopo ma dei corpi non vi fu mai traccia. Due furono i sopravvissuti: padre Amedee e padre Jean Marie.

Padre Amedee mori' nel 2008 e cosi' rimase padre Jean Marie che, anche se piccolo e vecchio (88 anni) porta su di s'è il peso di quella storia. L'ho incontrato pochi giorni fa, nel deserto marocchino, alla periferia di Midelt, al monastero di "Notre Dame de l'Atlas" dove lui vive dal '96 e questa e' la sua testimonianza.
(JAN MARIE, UNICO SUPERSTITE DI TIBHIRINE)

G.F: perché ha scelto di diventare monaco?
J-M: semplicemente perché ho sentito in me una chiamata per questa vocazione. Pensavo che era Dio che mi chiamava, per dar totalmente a lui la mia vita. Mi piaceva molto vivere in un monastero: una vita di silenzio, una vita di lavoro, una vita di preghiera. Una vita fraterna, di comunità. Un cammino comune verso il Signore. Convertirmi a una vita sempre più disponibile verso Dio, e lasciarmi trasformare da Gesù. 

G.F. : quando è arrivato a Tibhirine?
J-M : sono arrivato a Tibhirine il 19 settembre 1964

G.F. : come era la vita laggiù all’epoca?
J-M: siamo venuti a T perchè ci aveva chiamati il cardinale Duval, per mantenere il monastero che era in procinto di essere chiuso. Ed era dopo l’indipendenza dell’Algeria, in un ambiente totalmente musulmano; non c’era un solo cristiano nei dintorni. Eravamo in montagna, a 1000 metri, la montagna dell’Atlas, a 100 km circa a sud di Algeri e a 7 km dalla città santa di Medea. E siamo subentrati ad una comunità che era lì dal 1937, in una vecchia fattoria che in seguito era diventata il Monastero di Nostra Signora dell’Atlas. Quando siamo arrivati gli anziani erano già partiti, e ne rimanevano solo tre. Il progetto che ci hanno proposto era questo: quello di fare una bella esperienza, l’esperienza di una piccola comunità impiantata in un ambiente musulmano, e per di più una comunità povera. Questa comunità una volta possedeva una proprietà di 150 ettari; ma era stata ceduta quasi interamente allo Stato, in particolare la fattoria. Erano rimasti una dozzina di ettari, di cui solo cinque erano coltivabili…ed è con questo che bisognava vivere. Questo per quanto riguarda l’aspetto della povertà. In secondo luogo eravamo in un ambiente musulmano. Avevamo da far fronte ad un’esperienza di relazioni islamo-cristiane, e per di più eravamo dei monaci! Già i monasteri non sono ben compresi in luoghi occidentali…ci toccava farci accettare come monaci e come francesi in un ambiente totalmente musulmano. Bisognava imparare a conoscersi, era tutto un programma! Potevamo ispirarci ai documenti stilati dai concili riguardo alle religioni non cristiane, dovevamo ispirarci a questo per poter instaurare un nuovo stile di relazioni. Non cercavamo di convertire, ma ricercavamo una convivialità con la gente per progredire così nella mutua conoscenza, nella stima reciproca e infine aiutarsi ad andare insieme verso Dio, ognuno con la propria fede. Ma insieme, aiutandoci e stimolandoci l’un l’altro, diventando noi dei cristiani migliori e aiutando loro ad essere musulmani migliori; musulmano vuol dire sottomesso, quindi per loro significava essere sottomessi a Dio nel modo migliore. Questo era l’aspetto islamo-cristiano.
Una piccola comunità era per noi un’esperienza piuttosto nuova perché di solito avevamo comunità di 60 – 70 religiosi. Invece lì dovevamo imparare ad essere un piccolo gruppo che non doveva superare i 13 elementi, per rimanere discreti in un ambiente diventato socialista.
Come risorse avevamo semplicemente l’orto, di circa 5 ettari, dove coltivavamo ogni tipo di verdure: pomodori, patate, zucchine. Questo lavoro lo facevamo noi, avevamo una specie di trattore, e avevamo anche un piccolo oleificio. C’erano una macina e due frantoi e dovevamo macinare le olive delle proprietà vicine, in particolare di quelle più sotto ( e poi di quelle del comitato di gestione del monastero)

G.F: perché avete scelto di andare in un Paese islamico?
J-M: perché questa comunità esisteva già prima di noi. Esisteva dal 1937, da quando sono stati presenti i francesi, e noi siamo stati invitati dal cardinale Duval a prendere la successione di questa comunità che era in procinto di chiudere. E questo a causa della partenza di tutti gli europei, o quasi, dopo la guerra di indipendenza. Mi chiedeva “perché questa scelta” , non abbiamo scelto, siamo stati mandati là dalla nostra comunità di origine. Personalmente ero molto felice di vivere questa esperienza, ero addirittura entusiasta! Mi piaceva molto fare questa esperienza di relazione con i musulmani. 

G.F: qual è la sua idea sull’islam?
J-M: è molto difficile da dire perché l’Islam è qualcosa di molto vario, ci sono molti aspetti della religione musulmana. Quello che ci è piaciuto molto a Tibhirine era la vicinanza alla gente, ma è stata anche molto apprezzata una relazione con dei Sufi musulmani che abbiamo conosciuto nel 1979. Ci incontravamo due volte all’anno da noi al monastero e partecipavamo ad un gruppo di spiritualità che si chiamava “le ripat”, che vuol dire “il legame”. Questi incontri ci piacevano molto; loro ci avevano chiesto di non parlare tra di noi di teologia perché non si poteva progredire molto così, dato che le nostre fedi erano differenti, ma era meglio parlare dei cammini che vanno verso Dio, e cioè “Tarica” che è il nome della loro confraternita, e che significa “il cammino”, il cammino spirituale. Quindi si parlava solo di quello, del nostro modo di andare verso Dio, e del loro modo. Ci hanno proposto fin dall’inizio di pregare insieme. Eravamo riuniti in una saletta con tappeti tutt’attorno e un tavolino in mezzo. Ci hanno chiesto di pregare in silenzio, non ognuno con le proprie preghiere tradizionali, ma insieme. Insieme è difficile quando non si è della stessa religione, allora ci hanno chiesto di pregare in silenzio per mezz’ora. Accendevamo una candela in mezzo al tavolo, la candela significava “la presenza”. C’è un nome tra i più bei nomi di Dio, Allah …..”Dio è luce. E quando accendevamo la candela tutti capivano che c’era la presenza di Dio. E così stavamo seduti per mezz’ora in relazione con Dio, musulmani e cristiani. Al termine della preghiera chi lo desiderava poteva dire ciò che aveva vissuto a partire da una parola cristiana o da una parola musulmana, ma una parola che poteva andar bene sia agli uni che agli altri, una parola tratta dalle scritture. E ognuno diceva quello che aveva vissuto di questa parola nei propri luoghi di vita quotidiana, nella sua famiglia, nel suo lavoro; in una scuola o altro. Queste riflessioni venivano espresse al termine della preghiera fatta in silenzio. 

G.F: Le avevo chiesto della sua idea sull’Islam…
J-M come le dicevo avevamo due tipi di relazioni: c’era la relazione di convivialità con la gente e la seconda era invece la relazione con i Sufi. Queste relazioni, l’una e l’altra sono relazioni di dialogo. Si vede l’altro in uno spirito di amicizia, di buona intesa, do convivialità, di vita comune. Gli altri aspetti dell’Islam sono meno vicini, l’aspetto politico, per esempio. E’ importante invece l’aspetto di vita in comune, del vivere insieme. E questo tipo di relazione è molto positivo. 

G.F: qual è la sua idea sull’integralismo islamico?
J_M : E’ difficile da dire… 

G.F: il suo pensiero…
Li chiamavate “i nostri fratelli musulmani”
J-M Sì perché volevamo che tutti fossero fratelli

G.F: ma la religione cristiana è uguale a quella musulmana?
J-M: ah no, non è uguale! Non è la stessa religione. Ci sono molte cose in comune…

G.F: allora perché dice “i nostri fratelli musulmani”
J-M è un po’ come il padre De Foucault, il padre De Foucault voleva essere il fratello di tutti gli uomini, qualunque fosse la loro religione e la loro ideologia. Tutti gli uomini sono fratelli perché hanno tutti come origine Adamo ed Eva, al momento della creazione. Siamo tutti fratelli e abbiamo un unico padre che è Dio nei cieli. Questa è una meta verso la quale tendiamo incontrandoci con gente diversa, con gente totalmente diversa da noi. Noi, diversi da loro, cerchiamo di avvicinarci gli uni agli altri, di fraternizzare. E là a Tibhirine si diceva “i fratelli della montagna” e “i fratelli della pianura”. I fratelli della montagna erano “i combattenti” che volevano un altro governo. E i “fratelli della pianura” erano i militari. Li chiamavamo fratelli sia gli uni che gli altri perché non volevamo prendere posizione nella battaglia che combattevano. Volevamo che tutti fraternizzassero, che tutti diventassero fratelli nel proprio paese. Non lottare gli uni contro gli altri, ma andare d’accordo.

G.F.: vorrei ancora un suo pensiero sull’integralismo islamico
J-M: non li conosco bene né gli uni né gli altri…
G.F.: solo un suo pensiero
J-M: dal momento in cui pensano di essere gli unici a detenere la verità non si può essere d’accordo con loro. Vorrei che fossero come noi, e cioè aperti a tutti e rispettosi di tutti nelle loro identità. E non volere imporre il loro punto di vista sulla politica, sulla religione, o altro. Ma rispettare anche gli altri. E questo è un grande cammino che gli si può augurare.

G.F.: come monaco come vive il successo del film “Des hommes et de Dieu” ? un monaco è fatto per restare nascosto..
J-M: il successo… ne siamo i primi sorpresi. Sorpresi che una piccola comunità come la nostra di Tibhirine, che voleva rimanere nascosta, semplicemente unita a Dio e in relazione con i suoi vicini, vivendo un vita molto umile, simile a quella di Gesù di Nazareth…siamo stati i primi sorpresi a vedere come tutt’ad un tratto, grazie all’influenza del film, il monastero è stato conosciuto dappertutto. Allora, come vedere questa cosa? Io la vedo come un’opera di Dio. A mio parere la prima ragione è la grande qualità della preparazione de film. Gli attori, almeno per la maggior parte, non era gente di Chiesa. Come hanno fatto a fare un film simile? Credo che questo sia frutto della serietà con cui si sono preparati ad entrare nella pelle e nella vita (del personaggio) del monaco che hanno rappresentato. Si sono ben documentati per conoscere ognuno il Padre che avrebbero impersonato. Hanno incontrato le famiglie, hanno letto molti loro scritti; sono anche andati in un monastero per vedere come era la vita di un monaco. E poi si sono anche formati per la liturgia, e cioè per il canto religioso, e sul modo di comportarsi in chiesa. E poi, molto importante, hanno avuto con loro un consigliere liturgico e monastico che li ha accompagnati durante tutte le riprese. 
Il risultato è che hanno lasciato campo libero allo spirito di Dio di “lavorare le loro anime”. Il film è un po’ come un’icona. Certo l’icona è una rappresentazione e la si vede con gli occhi del viso, ma chi la guarda con uno spirito religioso percepisce il mistero, riceve il mistero che è rappresentato e che l’autore ha voluto rappresentare nell’icona. Nel film è la stessa cosa, gli attori hanno messo nel film qualcosa di religioso: la vita dei monaci, la loro spiritualità, la loro vita in comune. Tutto questo lo hanno ben rappresentato, così come il dramma che vivevano in Algeria: il clima di pericolo loro lo volevano condividere con la gente in forma di solidarietà. Tutto questo sono riusciti ad esprimerlo molto bene, così come anche questa solidarietà con la gente, la loro vita in comune, la loro convivialità. E attraverso tutto questo lo spirito ha potuto lavorare cosicchè, alcuni attori me lo hanno detto, sono stati loro i primi emozionati da quello che hanno vissuto durante le riprese.
Quindi, lei mi chiedeva come noi, che volevamo rimanere nascosti, abbiamo reagito…(a questo successo)
Di fatto questo non ci appartiene. Appartiene agli attori che hanno girato il film, e appartiene alla gente che lo riceve. Non ci appartiene più, noi possiamo solo rallegrarci se questa vocazione monastica, vissuta in tempo di guerra in Algeria e tra i musulmani,…se questa vocazione viene conosciuta. Se la si comprende, se la si comprende bene nella sua ragione d’essere. Non ha uno scopo di proselitismo, ma uno scopo di convivialità, di mutuo rispetto, di ricerca della conoscenza dell’altro, per apprezzare i suoi propri valori, e per proseguire insieme verso una maggiore umanità; con più rispetto verso la religione e docilità verso lo spirito divino. Se tutto questo è meglio conosciuto nel mondo non si può che rallegrarsene molto e ringraziare Dio.

G.F.: cosa è successo la sera del rapimento?
J-M: rischia di essere lungo se racconto tutto quanto..
G.F.: un breve racconto, ho bisogno di una sua testimonianza, molte persone aspettano di sentire la sua testimonianza
J-M: il rapimento ha avuto luogo la notte tra il 26 e il 27 marzo 1996 verso l’una di notte. Io posso raccontare solo quello che ho vissuto in prima persona.
G.F: può raccontarci quello che è successo quando sono arrivati i rapitori?
J-M: io ero portinaio notturno, mi sono svegliato al rumore delle voci davanti al cancello e ho pensato “ ecco sono qua, sono quelli della montagna, i combattenti. Vorranno senz’altro vedere il dottore e ricevere delle medicine, avranno qualcosa da chiederci. E siccome ero portinaio toccava a me aprirgli il cancello, ma erano già entrati, erano vicini, come davanti a questa porta. Aspettavo che bussassero al portone per aprirgli, ma nessuno bussava, continuavano a discutere…Allora vado a vedere alla finestra, senza accendere la luce e ne vedo uno che entra con il suo turbante e il suo fucile in spalla dalla piccola porta del muro di cinta che dava sulla strada. E viene verso il gruppo che parlava all’interno, davanti al cancello. Allora ho pensato “vediamo se entra” , perché normalmente non sarebbe potuto entrare, visto che il cancello lo chiudevo tutte le sere con un grosso lucchetto. Io avevo una piccola porta vetrata che dava sull’interno, e da lì lo vidi entrare, e invece di andare verso il cortile lo vidi entrare in una piccola porta di fronte alla mia, (lì c’era un passaggio che portava all’interno del monastero). Questa porta era vetrata e si apriva su un corridoio su cui si affacciavano alcune stanze dei padri.
A destra c’era una grande sala dove si trovava la stanza di frère Luc, il dottore, e di padre Amedee. Entrambi nella stessa stanza, che serviva anche da deposito per i medicinali del dottore. Sull’altro lato del corridoio c’era l’ufficio di Christian, il priore. Lui dormiva lì per stare vicino a noi che dormivamo al piano terra, vicino a Jean Pierre, a me, a padre Amedee e al dottore. Eravamo tutti e quattro al piano terra, mentre gli altri alloggiavano al piano superiore. 
allora, quando questo combattente entra dalla porta vetrata sento uno del gruppo lì fuori che chiede: “chi è il capo?” e sento un’altra voce che gli risponde “ è lui il capo, bisogna ubbidirgli”. Ho riconosciuto la voce di chi aveva posto la domanda, ed era quella di Chistian. Quindi Christian era uscito e ho pensato che fosse stato lui ad aprire e a farli entrare. Allora ho pensato: “ se e cose stanno così gli darà le cose di cui hanno bisogno e poi loro se ne andranno”.
un quarto d’ora dopo sento la piccola porta che si richiude (la porticina che dava sulla strada) e quindi ho pensato che se ne fossero andati. Christian gli avrà dato quello che volevano e saranno ripartiti. Poco dopo qualcuno bussò alla mia porta vetrata e penso “Allora c’è ancora qualcuno” Apro e vedo padre Amedee con un altro uomo, che era nella foresteria. Ero un po’ sorpreso di vedere quest’altro con padre Amedee, ma ho pensato che si fosse reso conto che “avevamo avuto visite”, ma che tutto era andato bene e che erano ripartiti. Allora padre Amedee mi ha raccontato subito quanto era successo, e cioè che i padri erano stati rapiti e che eravamo rimasti da soli. Mi sono reso conto allora che dovevano essere usciti quando io ho sentito la portina chiudersi poco prima.
Padre Amedee ha vissuto tutto questo da un altro punto di vista, lui era nella stanza grande, come le dicevo prima, assieme al medico. 
Vuole che le racconti questo? Dunque, padre Amedee si trovava nella grande sala dove, da un lato c’era la stanza di padre Luc

G.F.: nel film si dice che padre Amedee si era nascosto
J-M: sì ma questo non è esatto…padre Amedee si sveglia perché sente dei rumori, c’era qualcuno che frugava nei cartoni di medicinali e aveva pensato: “ecco sono qua” . Allora si veste e va a guardare dal buco della serratura e ne vede due che frugavano nei cartoni dei medicinali. Ma è durato molto poco. Tutt’ad un tratto era finito, non c’era più niente, come se fosse stato dato loro l’ordine di andarsene. Siccome tutte le luci erano accese, cominciò a spegnere le luci e poi va a vedere dal dottore, frère Luc. La sua stanza era sotto sopra e frère Luc era sparito. Dopo va a vedere nell’ufficio di Cristian: anche lui era sparito, i cassetti erano aperti, la stanza sottosopra, e c’erano carte dappertutto per terra, e i fili del telefono erano tagliati. Allora ha pensato “devo andare a vedere di sopra, al primo piano e vedere cosa è successo dai fratelli. E allora è salito per vedere se c’era ancora qualcuno che non fosse stato preso, ma lì vede la stessa scena: le cinque stanze sono vuote e i cinque frati sono scomparsi. Le camere dei frati erano poste sui due lati di un corridoio, poi c’era una porta che chiudeva questo corridoio e di là c’erano le camere per gli ospiti: va a vedere dagli ospiti e lì non era successo niente. Uno degli ospiti gli dice “ho sentito dei rumori dai frati e ho pensato che fosse fratello Celestin (che era tornato dalla Francia dopo aver subito intervento di 5 by pass) e che i frati si affannassero attorno a lui e allora ho voluto aprire la porta del corridoio per andare dai frati e vede il guardiano del monastero appoggiato al muro che gli fa cenno con gli occhi di sparire. Allora ha capito cosa stava succedendo ed è tornato nella sua stanza. Padre Amedee ha pensato a me ed è sceso a bussare alla mia porta e mi dice che i frati sono scomparsi, ma lui non è stato preso, però non si è nascosto sotto il letto.

G.F.: perché il film racconta che si era nascosto?
J-M: non so , il film non può riprodurre la storia tale e quale com’era. E’ molto veritiero circa lo spirito nel quale i padri hanno vissuto quel periodo pericoloso; a me piace enormemente quel film, rende molto bene lo spirito…è molto realista, anche se non può raccontare tutto quanto come era.
Il film è diviso in due parti, la prima parte si svolge nel 1993, la vigilia di Natale quando S. discute con Cristian; la seconda parte è nel 1996. Questo non è un film che racconta esattamente la storia, ma è un film che racconta quello che hanno vissuto i padri, come hanno reagito in quel periodo di pericolo stretti tra islamisti ed esercito.

G.F.: cosa sente nei confronti dei terroristi del rapimento?
J-M: padre Amedee ed io abbiamo subito capito che i rapitori erano i combattenti islamici, in seguito abbiamo saputo che si trattava di un gruppo con a capo uno degli “Ituni” ma al momento del fatto abbiamo capito solo che erano dei combattenti.
G.F.: ma pensa male di questi terroristi?
J-M: ma…non si può giudicare.
Io non li ho visti, non li ho incontrati. Ne ho visto solo uno, quello che è entrato dalla portina. E’ il solo che abbia visto.

G.F.: volevo sapere però qual è il suo sentimento: cosa sente nei confronti di queste persone che hanno rapito i suoi fratelli?
J-M: non so, io posso difficilmente giudicare, perché non so chi è responsabile…non so chi. In questo momento c’è una inchiesta in corso, è già da qualche anno che si indaga per sapere chi è responsabile del rapimento dei frati e dove sono stati portati, come sono stati uccisi, chi li ha uccisi…ancora non si sa.

G.F.: non è sicuro che siano stati i terroristi? 
J-M: non è sicuro, no
G. F.: ma le persone che hanno portato via i padri non sono buone persone, non si sono comportati bene, cosa prova nei loro confronti? 
J-M: possono essere state persone utilizzate da altri…è difficile emettere un giudizio
G.F.: ma li ha perdonati?
J-M: …non so cosa dire…è un fatto compiuto, ma chi è responsabile, chi deve essere perdonato, chi deve essere giudicato…non lo so. Non so chi sono , ma per i frati quello che mi interessa è il modo nel quale hanno vissuto tutto questo.
Noi altri ci aspettavamo che da un giorno all’altro succedesse qualcosa, perché dal 1993 vivevamo in una situazione di pericolo. Poteva succeder qualsiasi cosa in qualsiasi momento e c’era talmente tanta gente nelle nostre stesse condizioni in tutta l’Algeria…ne sono morti a migliaia.

G.F.: mi può dire allora la vera ragione per la quale siete rimasti, se sapevate il pericolo che correvate e con le minacce ricevute dai terroristi?
J-M: ha potuto vedere nel film quando S. è da noi la vigilia di Natale del 1993. Dopo quella serata ci siamo posti la questione se rimanere o andarcene vista la situazione difficile in cui ci trovavamo. E’ stato difficile, come avrà visto nel film, perché non eravamo unanimi all’inizio. Quindi si è dovuto fare un percorso e capire per quali ragioni si voleva rimanere. Penso che la ragione principale è la ragione stessa della nostra vocazione. Siamo stati mandati in Algeria per stabilire un contatto con l’Islam, per vivere con la gente un vita di convivialità e progredire in uno spirito di mutua fraternità. Diventare fratelli gli uni verso gli altri. E la nostra vocazione la nostra missione non era terminata nonostante questa situazione di pericolo. Nostro signore è lui il nostro maestro, quello che ci ha mandati qua, ed è a lui che obbediamo. Penso che per noi andarsene era come per un soldato al fronte disertare. C’è questa analogia…non è il pericolo che ci deve far partire, c’era una sola ragione che ci poteva far partire: era la gente, la gente che viveva attorno a noi. Se loro ci avessero detto “dovete partire, perché la vostra presenza rappresenta un pericolo per noi” allora in quel caso saremmo partiti.
Ma è proprio il contrario: la gente del posto voleva che noi rimanessimo, i nostri vicini si sentivano al sicuro, la nostra presenza era una sicurezza per loro perché loro erano in pericolo come noi. Ad un certo punto, quando non eravamo ancora ben sicuri di quanto avremmo fatto, c’è stato un dialogo con la gente del posto (mi sembra che compaia nel film) e uno di loro ci dice” se partite che cosa ci succederà? Siamo come l’uccello sul ramo: se si taglia il ramo dove si poserà?” questo per dirle la reazione della gente. Quindi vivere nel bene e nel male uniti alla popolazione locale musulmana, condividere la stessa sorte. E c’è una terza ragione legata a quest’ultima, che ad un certo punto della nostra presenza in Algeria abbiamo dovuto fare un voto di stabilità. Quando si entra nell’ordine religioso ci si impegna a rimanere tutta la vita nel monastero e noi abbiamo fatto il voto di stabilità per Tihbirine, ma in quel momento il voto ha avuto anche un’altra dimensione, non era soltanto per rimanere tutta la vita nel monastero, ma era anche un impegno a rimanere insieme, uniti. Nonostante una forza avversa avesse cercato di disperderci, di farci partire. Ci si ritrova da qualche parte, si continua la vita monastica insieme e sempre con questo desiderio di essere una presenza tra i musulmani.

Per di più è diventato come una sorta di matrimonio con la popolazione, un impegno nei confronti dell’Algeria e della popolazione locale. Come un matrimonio. Queste sono le tre principali ragioni (per le quali abbiamo deciso di rimanere).
E direi che queste tre ragioni sono utili a definire se i frati sono martiri oppure no. Possono essere morti in qualunque modo, uccisi da chissà chi, ma sono martiri per via delle ragioni che li hanno convinti a rimanere. E’ per questo che sono morti.

G.F.: Come dei martiri
J-M. Si’
G.F. : ma l’appuntamento era con la morte, sapevate che rimanendo lì andavate incontro alla morte.
J-M: sapevamo che poteva succedere, ma non si sceglieva questo. Non eravamo lì per essere martiri, non era il nostro obiettivo. Il nostro obiettivo era rimanere con la gente malgrado il pericolo, anche se si sapeva benissimo che si poteva essere uccisi. Questo si sapeva benissimo.
G.F.: Carlo Carretto ha detto : “Perché la fede è così amara…” Cosa ne pensa?
J-M: per rispondere bene a questa domanda bisogna guardare alla vita di Gesù: è lì che si trova la risposta. Gesù ha una morte molto crudele e la ragione per la quale è morto, per la quale ha dato la sua vita liberamente la si vede il giovedì santo, quando ha preso il pane e ha detto : “questo è il mio corpo offerto per voi, questo è il mio sangue versato per voi. Ha dato la sua vita per noi affinché noi avessimo la vita, la vita di Dio. Non ha esitato di fronte alle conseguenze possibili se avesse continuato a portare la sua testimonianza. Sapeva che poteva andare incontro a momenti molto difficili, alla croce, ma non ha indietreggiato. E lo si vede al momento dell’agonia: “Padre allontana da me questo calice,… ma non come voglio io ma come vuoi tu”. Aveva paura della morte e delle sofferenze che sapeva lo attendevano. Ha enormemente sofferto durante l’agonia ma alla fine ha detto “che sia fatta la tua volontà” ed è andato davanti alle autorità giudee che lo hanno giudicato.
Allora perché la fede è così amara? E’ a causa del male che c’è nel mondo.

G.F.: Nel film viene detto: “Rimanere qua è da pazzi come è da pazzi farsi monaco”. E’ da pazzi farsi monaco? Cosa ne pensa?
J-M: a proposito di questo ne film si vede molto bene come per alcuni frati non era facile dire “resto” , era un po’ una follia…è vero, ma è una follia dell’amore. Quando si ama non ci si tira indietro. Riprendo l’esempio del soldato al fronte: ha paura, vorrebbe andarsene, ma sa che è lì per difendere il suo paese, per tutto il popolo che c’è dietro di lui, e che rischia di essere invaso se lui non fa il suo dover di soldato. Rimane quindi, per essere fedele al suo dovere anche se è una follia. Per noi è lo stesso: si rimane per quelle ragioni che le ho detto prima. E che sono più importanti dell’integrità personale. Per questo servizio che ci è richiesto: essere fedeli alla missione che abbiamo ricevuto.

G.F.: Che testimone è lei , e che tipo di testimonianza vuol dare al mondo, alla gente?
J-M: Adesso? 
G.F.: Sì, lei è una persona che ha avuto una vita particolare, lei è un testimone della vita, un particolare testimone della vita. Cosa desidera testimoniare, cosa vuol dire al mondo?
J-M: Sarei portato a dire “nessun altra testimonianza tranne quella che porta il film”. E’ molto bello!
G.F.: ma cosa mi dice lei?
J-M: continuare a vivere la mia vita monastica come prima, con i miei fratelli. Tornare nella vita nascosta, la vita di monaco. Quando sono entrato in monastero ero a T….in un monastero bretone. La prima sera, una volta entrato nella mia cella, (una piccola cella chiusa con una tenda, ognuno di noi aveva una cella così) ho guardato da una piccola finestra che dava sul giardino e vedevo il muro di cinta, i campi di cereali, un paesino a sinistra, un altro a destra e un altro ancora su una collina e mi sono detto “questo è il paesaggio che vedrò fino alla fine dei miei giorni” e avevo allora circa 35 anni, non ricordo bene. Ed ero molto felice di vivere quella vita, di imparare a vivere quella vita, quel cammino verso Dio . Essere sostenuto dalla vita monastica per dedicarmi totalmente a Dio. Mi bastava, era ciò che volevo.
Non sono io ad aver deciso di partire e di vivere tutto quello che ho vissuto in Algeria. Sono stato mandato là, ma ho ricevuto questo come una nuova chiamata di Dio . E ora mi sembra che ci sia di nuovo la stessa chiamata che avevo ricevuto quando sono entrato alla Trap. (intende l’ordine trappista)
Riornare a questa vita monastica che mi guida verso il dono totale di me a Dio.

G.F.: Cosa può dire ai giovani in questo mondo di consumismo in cui si trovano, e dove pensano solo a fare una vita materiale? Un suo pensiero
J-M: …è difficile…non sono preparato, penso che attualmente tanti giovani sono molto generosi, ma sono attratti da ogni sorta di gadget…e rischiano di essere monopolizzati da queste cose e di dimenticare l’essenziale.
l’essenziale è far sbocciare quello che c’è di meglio in noi, come dice bene Guy Gilbert, un educatore degli emarginati, “c’è in ogni uomo, nel suo profondo, qualcosa di intatto, che non è mai stato rovinato.” E questa parte profonda che abbiamo tutti, ognuno deve cercare di svilupparla, sviluppare quanto c’è di meglio in lui. E per riuscire a farlo sbocciare non è solo, c’è lo Spirito Santo che gli parla al cuore, che può incontrare nella preghiera e che gli indica il cammino. Ma ci sono anche le buone compagnie, ci sono le associazioni, i movimenti di giovani. Ci sono vari punti di riferimento nella vita sociale che aiutano in questo senso, c’è prima di tutto l’educazione certo, dei genitori prima e poi della scuola, ci sono dei programmi scolastici che sono fatti per sviluppare quello che c’è di più bello nell’uomo, per essere forte di fronte a tutte le tentazioni che lo degradano. E poi c’è il sostegno dei compagni, dei maestri spirituali…
Ogni persona ha il dovere di sviluppare quanto di meglio ha in sé. Per diventare un servitore della società perché si sviluppi tutta intera nel senso del bene, e per valorizzare le qualità umane.
Voglio usare un’immagine che mi ha dato un Sufi “ci si sente molto piccoli di fronte all’immensità del compito”, l’immagine del Sufi è quella della farfalla. La farfalla ha ali molto fragili: se si toccano si rovinano e la farfalla non può più volare. Ecco cosa mi diceva il Sufi “quando la farfalla batte le ali produce delle onde che si ripercuotono fino in capo al mondo. Chi cerca il bene, chi cerca di far sbocciare il meglio di se stesso è come questa farfalla: produce delle onde che vanno in capo al mondo, la sua vita non è inutile, le piccole cose che fa, se sono fatte bene, e con l’aiuto dello spirito divino che vive in lui, producono degli effetti che arrivano dall’altra parte del mondo. Partecipa a far salire il livello del bene e dell’amore

Bisogna pensare così, ogni uomo è utile, nessuno è inutile, con il Signore non c’è disoccupazione: sia quando si è piccoli sia quando si è anziani, non c’è disoccupazione. Il cantiere è immenso e tutti sono invitati a lavorarci. 

G.F.: Qual è il suo dovere, qual è la sua missione adesso?
J-M: E’ quello che dicevo poc’anzi: quello di cercare di essere un buon monaco, di vivere bene la mia vocazione monastica. Tutto quello che ho detto riguardo ai giovani…devo iniziare a dirlo prima di tutto a me stesso: essere come quella farfalla…
G.F: E’ una bellissima immagine, lei è un uomo felice
J-M: certo!
G.F. quella sera là, l’ultima cena, cosa vi siete detti? La scena del film è realistica?
J-M: è una scena molto bella, che evoca l’Ultima cena, la santa cena. Si vede fratello Luc che posa una bottiglia sul tavolo e sembra una festicciola intima, si vedono i frati alzare il bicchiere con il sorriso e la gioia… poi tutt’ad un tratto i visi cambiano, pensano che stia per capitargli qualcosa. C’è uno che non osa nemmeno bagnarsi le labbra con il vino. Penso che sia uno dei frati che non era sempre stato lì, che non aveva vissuto tutto quel periodo pericoloso, e quindi non aveva vissuto la stessa evoluzione degli altri. Ma non so perché le sto dicendo questo.. ah sì, era riguardo all’ultima cena. Era forse un po’ come tutte le altre sere, personalmente pensavo “potrebbe darsi che all’improvviso riceviamo una visita proprio mentre stiamo mangiando” . Vivevamo un po’ in quello spirito lì, si sentiva il pericolo aleggiare tra di noi. E così avevamo sempre questo spirito di felicità di stare insieme ancora, perché poteva succedere qualcosa in qualsiasi momento. E quindi questa scena anche se non racconta esattamente l’ultima cena fatta insieme, evoca però un po’ tutte le cene fatte nell’ultimo periodo. Aveva un po’ quel colore, e poi nello stesso tempo, e soprattutto evoca l’Ultima cena di Gesù, l’ultimo pasto fatto insieme. E’ molto ricca.

G.F.: cosa significa “l’amore fa superare ogni cosa, l’amore vince su tutto”?
J-M: si dice che qualsiasi siano le difficoltà, le sofferenze, il male che c’è nel mondo…è l’amore che avrà l’ultima parola. Questo è un atto di fede, siamo fatti per l’amore, l’amore vincerà il male; cosa vuol dire? Non lo vincerà con la forza, non con le armi o con un altro tipo di forza. L’amore trionfa sul male perché è più forte, ma non basta la persona umana: l’amore è una relazione con Colui che è lui stesso amore, che è la sorgente dell’amore. Io lo vedo particolarmente riguardo a Gesù. Ha avuto sofferenze indicibili sulla croce, per ore e ore, ma ha vinto tutte le sue sofferenze. Non con lo scoraggiamento, l’odio o altri sentimenti simili, ma restando amore. E’ così che ha trionfato sul male, è rimasto amore fino alla fine.

G.F.: se avesse un desiderio, un sogno adesso, quale sarebbe?
J-M: mi piacerebbe che molti si mettessero insieme per cercare la fraternità e l’incontro. Per esempio in Francia, o in qualsiasi altro paese dove sempre più la gente si mischia, le culture si mescolano non bisogna lasciarsi andare a chiudersi in sé stessi perché creerebbe un fossato che prima o poi finirebbe con degli scontri. E’ meglio andare incontro all’altro, cercare di conoscerlo, vivere con lui. Mi sembra che questo sia l’avvenire, la salvezza del mondo. Per il nostro mondo sempre esposto alla violenza. Non aver paura di andare incontro all’altro, cercare di conoscerlo e cercare i suoi lati positivi. Diventare fratelli.

G.F.: non ha il desiderio di tornare a vivere in un grande monastero in Francia, dove tutto è più tranquillo? Preferisce stare qui?
J-M: sì questo è vero, 
G.F.: perché?
J-M: ma per continuare a vivere questa bella vocazione di relazione con i musulmani, per farle capire bene mi piace sempre usare l’immagine della scala: sono i Sufi che ci hanno dato questa immagine.
E’ una scala doppia appoggiata per terra, un po’ come la scala di Giacobbe nella Bibbia. Questa scala ha due versanti, e loro (i Sufi) ci dicevano “ noi cerchiamo di salire da un lato essendo sottomessi a Dio nel modo migliore, e voi salite dall’altro lato, verso la cima, verso Dio, e più si è vicini alla cima, a Dio, tanto più si è vicini gli uni agli altri. Questo è interessante. Cerchiamo di salire ognuno dal proprio lato, ma vivendo questo percorso insieme. Ci si aiuta. Loro cercheranno di essere migliori musulmani, e cioè più sottomessi a Dio, ad ascoltare la sua voce, ad obbedirgli e a fargli piacere. E noi da parte nostra ci aiutiamo gli uni gli altri a migliorare. Io trovo questa cosa molto bella, e mi piace molto viverla.
G.F.: ma in Francia, in un grande monastero sarebbe meno bello?
J-M: no, è molto bello anche lì perché questa cosa la si può vivere dappertutto, sia in una grande 
Comunità dove la si vive con dei frati, sia nelle relazioni di vicinato, ma la si può vivere anche in focolare, in una coppia. L’uomo e la donna sono diversi. Bisogna che salgano anche loro, che ognuno salga dal suo lato, con la sua spiritualità e il suo carattere, rispettandosi l’un l’altro, cercando di conoscersi e di aiutarsi per avvicinarsi a Dio. Perché il matrimonio non sono solo due anelli, c’è anche un terzo anello. E il terzo anello si incastra negli altri due ed è quello che rende solido il matrimonio. Se non c’è questo anello il matrimonio non regge, e arriva il divorzio. 

G.F.: non ha mai pensato di vivere da solo, di vivere come un eremita?
J-M: sì mi è capitato, ma riflettendo su quello che sono mi sono reso conto che non sono fatto per questo. Perché la vita da eremita bisogna sapere cos’è. Non è solamente abitare da solo da qualche parte, in una grotta o altro, ma è vivere da solo cercando di avvicinarsi a Dio attraverso la vita spirituale, con il digiuno, la preghiera. Non si ha l’occasione di vivere la carità fraterna (come nel monastero) ma la si vive attraverso la preghiera: si deve portare il mondo con il Cristo. Ebbene è molto difficile vivere da solo e mantenere lo slancio primitivo. Si devia facilmente verso la porta naturale. E’ molto difficile vivere questo da soli, invece nella comunità ci si aiuta, c’è la correzione fraterna, c’è l’aiuto dei superiori...eccetera. Ma da soli è molto difficile mantenere la rotta verso la stella. Ci sono delle tentazioni molto forti di abbandonare. Si dice spesso: ”i primi tre anni in un eremo tutto va bene, ci si installa nella propria cella, è una cosa nuova… ma il terzo anno si comincia a pensare ”ma cosa faccio qui, perdo il mio tempo” . Ci sono tentazioni di questo tipo. Si ha voglia di andarsene, di fuggire via, questo lo capivo molto bene, ed io non ero fatto per questo tipo di vita. 

G. F. la vita di Charles De Foucault è molto diversa?
J-M: si tiene in grande considerazione la sua spiritualità, qui si ama molto la spiritualità di padre De Foucault , egli era insieme eremita e teneva i contatti con il mondo. Per esempio a Benie-Abbès metteva delle pietre al posto del recinto ma queste pietre si potevano facilmente superare, non era una recinzione invalicabile. E poi un altro, padre Robert a Tibhirine, è un vecchio benedettino che si era fatto monaco nella montagna, eremita. Aveva iniziato a fare un recinto, in quella zona c’erano dei carbonai che raccoglievano legna, ma d’inverno, quando pioveva, venivano a ripararsi da lui e non se ne andavano più. Discutevano e non se ne andavano più via, e lui non poteva più vivere la sua vita monastica come si deve. Allora ha costruito una piccola rimessa accanto e li riceveva lì. E lì parlavano, e quando voleva ritirarsi poteva farlo. Ha capito che un lato del recinto doveva rimanere aperto. Questo è il nostro ruolo qui. Dobbiamo rimanere aperti alla gente che vive qui attorno, mantenendo la nostra vita monastica autentica. Un equilibrio difficile e molto bello. 
G.F: crede che il pensiero spirituale sia più elevato in un eremita o in un monaco?
J-M: non si possono paragonare. Tutto dipende dalla fedeltà di una persona. Entrambi sono molto belli.
G.F.: c’è una differenza? Quale pensa sia la differenza tra un eremita e un monaco?
J-M: penso che per essere eremiti bisogna avere una vera vocazione, nella vita del monaco l’aspetto comunitario è molto bello, ci si aiuta. Come le raccontavo prima con la storia della scala: ci si aiuta ad avvicinarsi a Dio, è molto bello quando è vissuto bene. L’eremita ha una relazione diretta con Dio. Ha delle esperienze speciali nella sua relazione con Dio, se è fedele. Ed è questo che gonfia la sua anima, che gli dà la forza e la gioia. Se lo vive bene. E’ un vita austera ma molto bella.

G.F.: la sua fede è cambiata dopo i fatti di Tibhirine, dopo la morte dei suoi fratelli?
J-M: se la vocazione è cambiata? Non credo che debba cambiare, la vocazione è sempre la stessa, la vocazione è quella di andare verso Dio, ciò che è difficile è mantenere il giusto equilibrio; non lasciarsi tentare di andare da una parte o dall’altra.
G.F.: desidera dirmi qualcos’altro? Le ho chiesto tutto o c’è ancora qualcosa che vorrebbe dirmi?
J-M: penso che quello che potrei dire adesso è già stato detto prima quando mi chiedeva a proposito dei giovani e di un mio augurio. E cioè che la società si evolva nell’aspetto spirituale e non solo in quello materiale. Tanto nella formazione che nella vita personale. La formazione dei giovani, la vita culturale, il cinema, i giornali…alcuni si sentono chiamati nella società a coltivare questo equilibrio tra lo sviluppo materiale e la crescita spirituale, perché l’uomo è fatto da tutti e due: è insieme corpo e anima. C’è un equilibrio anche lì che bisogna coltivare . E’ molto importante il ruolo che svolgono quelli che si occupano di cultura nei diversi paesi, nella società, anche nei media.

G.F. : mi può spiegare chi sono le persone dei ritratti?
J-M.: il primo in alto è padre Cristian, il priore del monastero; a destra c’è fratello Luc, il medico, mentre a sinistra c’è fratello Cristophe che si occupava del giardino. In mezzo poi c’è fratello Bruno che era responsabile della piccola comunità di Fez. Sotto, a sinistra, c’è fratello Celestin, che era stato prete di strada a Nantes, mentre a destra c’è fratello Michelle che era cuoco; e al centro fratello Paul che era esperto in idraulica. Qui in basso invece c’è fratello Amedee, che è deceduto nel 2008. Questo qui esposto è il testamento di Cristian, questa è la fotocopia dell’originale.

Infine lo saluto, il portone si richiude alle mie spalle...quando mi volto, vedo i profili del monastero di Notre Dame de l'Atlas e gli alberi che all'interno, alti, si muovono alla leggera brezza ed un raggio di sole, in controluce, per un attimo fa svanire tutto ciò che mi circonda.

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