Thursday, 18 October 2012

Andare a scuola in Corea di G.Riva - part I

Questa collana inizia, con il presente numero, ad affrontare il problema della scuola. Non è privo di senso il fatto che i due aspetti (lavoro e scuola) siano stati inseriti in questa unica raccolta: la conservazione qualitativa (cioè i rapporti di produzione) e quantitativa (cioè la produzione materiale di sé) avviene, per il sistema nel quale viviamo, attraverso lavoro e scuola come pilastri ancora fondamentali.
Tale riproduzione semplice (conservazione) avviene mediante la fabbrica per ciò che concerne la riproduzione dei mezzi di produzione (macchine, materie prime, capitale costante) tende ad avvenire invece soprattutto mediante la scuola per ciò che riguarda il rinnovamento (riproduzione) della forza lavoro. La fabbrica dà sì un elemento notevole alla stessa riproduzione della forza lavoro: il salario, per la sopravvivenza (per garantire le condizioni materiali di esistenza della forza lavoro); tuttavia essa non dà la competenza e l’ideologia (secondo le condizioni della divisione sociale-tecnica del lavoro) che garantiscono alla forza lavoro di sopravvivere sempre effettivamente come tale in questa società.

Riprodurre la forza lavoro è riprodurre la qualificazione e la sottomissione all’ideologia dominante: la scuola trasmette un saper fare e lo trasmette in modo e in condizioni tali che esso assicuri l’assorbimento, da parte della forza lavoro, dell’ideologia dominante.

In una società divisa come la nostra, che non vive unitariamente, che non fa un’esperienza di liberazione, che pone la produzione come interesse principale, ciò che vale sono il capitale e (quest’ultimo in funzione del primo) il lavoro.

L’educazione, la scuola, no. 


Una società che cerchi una liberazione, nonostante gli errori e i tentativi sono portati sino in fondo, non genera nessuna transizione effettiva se non costruisce un’unità reale che possegga strutture in cui sia possibile educarsi ed educare: una reale società di transizione si configura come una grande scuola, nella quale ogni azione ed istruzione divengono fattore culturale e critico, educativo, servizio reale a chi lavora e chi si batte per una liberazione che troverà sempre ostacoli, a chi insomma, anche incoscientemente, cerca una liberazione.

I movimenti di liberazione di un popolo e le nuove società di transizione intuiscono di non poter sfuggire a questo reale problema e la loro lotta è perciò contemporaneamente un movimento educativo; le campagne di alfabetizzazione e la possibilità di studio generalizzata sono solo implicazioni e conseguenze particolari di quella dimensione educativa che il tentativo di novità sociale porta in sé.

Scuola effettiva è solo una scuola di vita, dove sia almeno prospettivamente risolto il dualismo teoria/prassi, dove lo studio e le competenze siano finalizzati a un’unità sociale reale, dove esista una reale connessione dialettica tra analisi e sintesi. Un’esperienza positiva di scuola in senso stretto è possibile solo laddove tutta la vita è una scuola, dove cioè le strutture sociali sono realtà in cui educarsi ed educare.

Nella società capitalista l’educazione non ha invece importanza, non le si dà importanza. Si chiama educazione l’imposizione ideologica di un sistema; la scuola è strumento con il quel l sistema rinnova la propria forza lavoro, dando ad essa alcune competenze e qualificazioni (un saper fare) in modo tale che i rapporti sociali corrispondano ai rapporti di produzione (e assicurino la sopravvivenza delle condizioni della produzione): tutto in vista dell’espansione del capitale.

Solo quando le condizioni sociali intaccano l’ideologia (che deve perciò riformularsi anche praticamente), allora la scuola e l’educazione divengono importanti: per il resto, l’educazione non è importante. Una riprova possiamo averla nel fatto che, dopo la cosiddetta riforma del 1963 per la scuola media inferiore, non si è fatto altro in Italia.

La nostra società non costruisce nulla, mira solo alla produzione; si rinnega ciò che è la risorsa originale che scavalca i bisogni reali in vista dell’espansione del capitale; la divisione del lavoro rompe ogni unità e ogni crescita reale. La fabbrica è il centro di questa divisione, ma, nella scuola, si sperimenta una divisione ideologica tale che fa anche di questa nostra istituzione un luogo di contraddizione e di divisione.

Lo studente e l’insegnante fanno, a scuola, esperienza di una divisione: tra studio e tempo libero, tra vita a casa e vita a scuola, tra licei e scuole professionali, tra operai e studenti, tra insegnanti e studenti, tra il cosiddetto “primo” e ”ultimo” della classe, tra studio e lavoro, tra reali problemi e interessi fittizi. Ma la divisone più grande è sul significato, come si può cogliere dalla vera domanda posta dal movimento nato nella scuola: “quale educazione, con quali mezzi e per quale fine”?

La vera contraddizione e la vera domanda sono sul fondamento, sul reale significato di ciò che si fa.

Per risolvere la contraddizione, si è ripresa in mano la pedagogia, si sono disseminate le circolari e riempite le teste con l’idea dell’efficienza e del realismo. Invece di attaccare alla radice il problema, lo si elude.

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