
Non mi piaceva stare seduto sulla vetta dell’Altissimo, con la gente sotto: e Remo, senza volere, mi costringeva a vivere così. Prima o poi, le cose sarebbero cambiate, speravo. Un rapporto doveva incominciare, un giorno o l’altro. Non potevo essere continuamente umiliato dalla disposizione di Remo, della gente come Remo, a considerarmi superiore a loro, diverso da loro. La mia vita non poteva realizzarsi nella solitudine. Altrimenti avrei sbagliato tuto. Perché avevo scelto la carriera dell’insegnante, perché tutte le mattine entravo in mezzo ai ragazzi disposto a parlare di tutto, di Dante, di Pascoli, di Montale, di fatti attuali, freschi freschi? Perché mi incantavo di fronte alle loro facce oneste e mi meravigliavo continuamente che accettassero una lezione sulla struttura dei Promessi Sposi e poi, subito dopo, accettassero la mia rabbia violenta per il fatto che all’ONU, per esempio, avevano stabilito di definire razzismo il sionismo? Perché avevo deciso di buttarmi nella mischia della scuola che è tutti i giorni un’avventura, che vuole fiato, pazienza, intelligenza, rispetto dei giovani, fiducia in loro, coraggio incredibile tutte le volte che si incomincia un discorso e si ha paura di imporci con le nostre idee già fatte, di essere diseducatori piuttosto che educatori? Perché restavo ancora dentro quella giungla di cui tutti parlano e che pochissimi conoscono, in quella zona che tutti definiscono a parole la parte vitale della nazione e che è, poi, in realtà, un ghetto chiuso lasciato in disparte, affidato ai poveri cristi che sudano sangue, che tutti i giorni giuocano sulla propria pelle? Avevo scelto così perché volevo vivere in mezzo agli uomini, essere un frammento di una società. E mi dispiaceva che Remo non mi desse del tu. Glielo dissi. Lui mi fece: “E’ difficile, professore. Ma se le fa piacere, proverò. Spero che mi riesca”.
Luigi Testaferrata, L’altissimo e le rose, Ed. Città Armoniosa, Reggio Emilia, 1980 nota di G.Bàrberi Squarotti.
No comments:
Post a Comment