Thursday 25 October 2012

Andare a scuola in Corea di G.Riva - part II

Il vero problema pedagogico, un vero realismo e una giusta efficienza consistono nel cambiare le condizione dell’educazione, condizioni che risiedono nella natura divisa della nostra società, nella divisione e nell’ineguaglianza (preesistenti alla scuola) dovute allo sviluppo ineguale del capitalismo italiano, sia a livello geografico (meridione) si a livello di rapporti sociali.

Ma questo ribaltamento non può essere fatto da questa società; perciò la scuola non è mai lineare strumento ideologico del potere; essa è piuttosto sempre in assestamento, un assestamento che utilizza tutto, anche contraddittoriamente: dai genitori (che fanno l’appello al “senso di responsabilità”) all’arsenale repressivo proprio o statale (soprattutto, intelligentemente, nei periodi di impossibilità di mobilitazione).

Il ribaltamento non può neppure essere fatto da chi nella scuola interviene accettando la corrente accezione dei termini come educazione e cultura, oppure recuperando il valore politico del termine educazione confondendolo però subito con la propaganda o con l’istruzione tecnico-ideologica e quindi senza praticarlo come esperienza di vita e di unità che utilizza ogni competenza all’interno di tale globalità.

Non avendo recuperato questo fondamentale aspetto, tutti i gruppi del movimento nato nella scuola hanno poi abbandonato questo ambito (certo, con uno spunto giusto, perché una scuola non vive a sé) per dedicarsi ad altro (fabbrica, quartieri). Chi vi è rimasto on ha saputo (costretto forse in questo dalla continua successione delle lotte istituzionali) riempire il vuoto culturale e politico della scuola stessa, la quale perciò oggi prosegue il proprio cammino alienante, grazie anche alla fedele attenzione del PCI, il quale, nel campo della cosiddetta sovrastruttura e della “vita sociale” (scuola, sanità, decentramento, ecc) è sempre stato il profeta seguito da tutti i partiti, DC compresa, e può essere l’unico a garantire una scuola asservita alla modernizzazione del capitale.

I partiti, che hanno lasciato (se mai l’hanno presa in considerazione seria) la scuola da anni, tentano ora di rientrarvi in nome della democrazia, ma democrazia organizzata e istituzionalizzata nella quale non si vive nulla di reale ma che solo rispecchia una formalità ideologica.

Come mai ciò avviene oggi?

Per mantenere un’alta produzione e una concorrenza internazionale, il capitalismo italiano deve rinnovare le macchine e adeguare l’apparato statale allo sviluppo capitalista; i lavoratori devono essere perciò preparati a questa modernizzazione, che esige mobilità e adattabilità e non più la professionalità che si richiedeva fino a pochi anni or sono.

Non è esatto perciò parlare di dequalificazione della scuola. È esatto parlare di scuola senza significato reale perché questa società tutta è senza significato reale; di dequalificazione no: sarebbe solo un desiderio di privilegi piccolo-borghesi); invece il grande capitalista e il proprietario non rimpiangono (certo, per motivi diversi) la vecchia scuola. Oggi è maggiore il numero degli studenti, è più lungo il periodo di scolarizzazione e ciò aumenta il valore della forza lavoro, rallenta l’esplodere del fenomeno della disoccupazione, diminuisce le differenze interne alla forza lavoro, concede mobilità e adattabilità.

Allora, in questa società e in questa scuola, si può essere solo schiavi? Per fare qualcosa di valido, occorre prima avere il potere? Questa scuola, luogo di contraddizione e ancora luogo di privilegio non può avere punti di unità?

Noi diciamo di sì. Non si può negare la novità che si intuisce di poter realizzare in qualche assemblea, nei momenti in cui il sistema attacca e ci si sente più assieme, nella concreta difesa di bisogni ed esigenze reali; nei momenti di proposta di una volontà di liberazione e di novità rispetto al normale modo di procedere, nei momenti in cui si agisce per tutti e non per una difesa corporativa. Non si possono negare le infinite possibilità del rapporto insegnante/alunno, quando il primo passo del rapporto educativo è un’unità di vita reale che si crea (la scuola a tempo pieno è una prosecuzione della divisione a tempo pieno se non è un’unità di vita, un movimento di liberazione a tempo pieno).

Se la scuola è, per chi la vive, luogo di contraddizione, occorre non fuggirla ma pretendere di viverla con libertà, chiedendo agibilità politica per riprodurre nella scuola l’esperienza reale e critica che si fa nella vita e nel contesto sociale e politico.

Se la scuola è vissuta così, allora quel privilegio che effettivamente viviamo può diventare servizio, può diventare utilizzazione delle competenze in funzione del progetto di liberazione che si vive.

Insomma, perché il lavoro e la lotta contro la divisione nella scuola siano in vista di una società nuova e più giusta, occorre che sia già ora iniziata, tra chi opera ora nella scuola, un’unità che con continuità agisca nei luoghi di divisione.

Questa collana presenterà testi che ci inviteranno , in nome di un’unità almeno tentativamente realizzata, a non sfuggire dalla scuola (se ci siamo) ma a chiedere di poterla vivere con piena libertà politica, senza “ritorni all’indietro” e senza nuove istituzionalizzazioni.

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