INDIANS (1975)
La storia che ci presenta questo film del 1975 è la storia del cinismo del potere, qui evidente nelle sofferenze del popolo indigeno americano, gli indiani d’America, causate dalle operazioni di sterminio degli invasori d’oltremare.
I due “attori” principali del film sono due modi di vedere il mondo, di cui, inevitabilmente, uno è ingiusto e sbagliato. Da una parte l’esercito dei coloni americani, arroganti invasori moralisti che propugnano carte di libertà e democrazia in uno sforzo diremmo infantile di costruirsi un’immagine (moralistica) di “buona nazione”; dall’altra il popolo autoctono e secolare di capo Giuseppe, uomo saggio e prudente , a capo di un popolo profondamente radicato nel suolo americano, con tradizioni legate alla terra, alla natura e, in un certo senso, alla semplicità che deriva da quella sincera religiosità insita nel cuore umano immerso nel mistero della vita.


Tale cinismo emerge in tutta la sua paternalistica sottigliezza già dalle prime scene del film. Il generale a capo dell’esercito di soldati è incaricato di “convincere” capo Giuseppe a trasferirsi in una riserva (stessa cosa che rivedremo nei secoli avvenire e soprattutto con i palestinesi) su mandato (di chi?) del governo degli Stati Uniti (ente supremo indiscutibile). Per discutere della questione (ma c’è e ci sarà mai spazio per il povero e debole per difendersi dalle decisioni del potente?), c’è un raduno all’aperto. Il generale, prima di inizare, si preoccupa teneramente della moglie di Giuseppe, che sta per partorire un bambino. E’ questa la scena che percorrerà tutto il film: il cinismo cosciente del potere. Infatti, quella tenerezza stona davvero: capo Giuseppe dice che non possono trasferirsi, perché è la loro terra, la loro storia, le loro tradizioni; il generale dice che lui deve eseguire degli ordini. Quindi, altro che dialogo democratico! Mentre ti uccido ti chiedo come stai! O, come diceva padre Moore al Tonalestate, il potente vorrebbe instaurare un dialogo democratico mentre ti sta pestando i piedi.
Possiamo supporre  che la tenerezza e la premura del generale siano sincere e che, sì, lui non è altro che un soldato che deve purtroppo  obbedire. Ma la coscienza umana ci insegnerà sempre che “obbedire non è sempre una virtù”. Di questo monito ne sarà testimone il tenente del generale, più giovane, e più tentato a disobbedire agli “Stati Uniti d’America”, in virtù del principio superiore che è nel cuore umano. Ma anche lui si farà trascinare.
D’altra parte, la guerra con il popolo di Giuseppe sarà scatenata proprio da una disobbedienza. Un “cowboy” uccide a sangue freddo un indiano di fronte a suo figlio, accusandolo falsamente di furto. L’ira e la sete di vendetta incendia questo ragazzo, ma Giuseppe gli intima di non fare nulla. La giustizia risolverà tutto. Giuseppe ne parlerà all’incontro con il generale. Che effettivamente capisce. Ma il giovane disobbedisce e fa di testa sua, uccidendo gli assassini di suo padre. Questo fa precipitare la situazione: in un popolo nato sul commercio delle pistole, il grilletto sarà molto facile. Ormai i lupi andranno all’inseguimento delle pecore. Fino agli estremi confini con il Canada. Il popolo di Giuseppe vi arriva stremato, decimato, solo poche donne e bambini rimangono. Non gli rimane che arrendersi. Nella scena finale, Giuseppe va a incontrare di nuovo, faccia a faccia come all’inizio del film, il generale. Ma questa volta gli volterà le spalle, dicendo poche parole e piangendo, lui, uomo saggio fermo e impavido. Perché di fronte alla violenza irrazionale del potere che, per un mistero della libertà umana, è abilitato a sopprimere l’altro uomo non considerato più come suo fratello e simile, non c’è che il silenzio e le lacrime, posti come un altare di invocazione a qualcosa o qualcuno che abbia pietà dei nostri soprusi. 
Riferimenti esterni
Wikipedia, Chief Joseph, http://en.wikipedia.org/wiki/Chief_Joseph