Non vi è mai capitato di essere attratti da un film semplicemente per il titolo e di essere poi completamente risucchiati dalla bellezza di una poesia?
Mi è accaduto alla visione pomeridiana (al modico prezzo di 0,50 cents per gli over 65; io me la sono cavata con 3 euro) del film LONDON RIVER, di cui sapevo solo il titolo in rassegna e una voce che mi diceva che “forse” l’attore principale o il regista erano stati premiati a Berlino.
Ma del resto di questi “bei film”, proprio quei “bei film” di un tempo che ormai non si trovano più, non se ne parla molto in giro…
7 Luglio 2005. Pochi minuti prima delle 9 del mattino, e poi esattamente ancora un'ora dopo, a Londra esplodono quattro bombe. Quattro kamikaze si sono fatti dilaniare dentro i mezzi pubblici uccidendo cinquantasei persone e ferendone settecento. Poco dopo verrà ritrovato un video in cui uno dei terroristi islamici deceduti dichiara che il suo gruppo è in guerra con la società britannica. Inizia così il racconto della drammatica esperienza del musulmano Ousmane e della signora Sommers, cristiana, che non si conoscevano fino a quel terribile giorno....
Con un preambolo del genere c’era da aspettarsi un film rivolto al solito problema della psicosi del “terrorismo islamico” o di un thriller di fantapolitica che ti tiene il fiato sospeso nell’attesa di vedere i terroristi scovati, ammanettati e portati su teleschermi di tutte le tv del mondo.
E invece è solo una scusa bella e buona; una scusa per portare l’attenzione sui pregiudizi, sulla diffidenza e sul “terrore” che ci viene insinuato di fronte all’altro che, invece, vive del mio stesso dolore.
Immaginatevi una tipica signora inglese, energica vedova di un militare delle forze navali britanniche morto in guerra nelle Falklands, ascoltare il sermone del pastore alla messa mattutina, finire di riporre l’insalata che lei stessa coltiva nella sua isoletta, raccattare il bucato e correre alla ricerca della figlia venticinquenne per la quale nutre un terribile pensiero che le si è insinuato dentro nel sentire le notizie da Londra, in quella mattina del 7 luglio 2005. E, catapultata a Londra, si trova davanti a una figlia che non riconosce, che vive in una strada della metropoli abitata da indiani, pakistani, cinesi, arabi, italiani, africani etc etc, che alloggia in un modesto appartamento, affittato dal bottegaio sottocasa (anch’egli indiano) ed è circondata da “strani oggetti” come uno strumento musicale esotico e una copia del corano in arabo. Questa donnetta, terrificata dal sospetto, rimbalza come una pallina di un flipper tra polizia, ospedali e i luoghi frequentati dalla figlia nella speranza di sapere che fine abbia fatto.
E mentre la signora Sommers vive tutto il tremore del suo stato, vediamo un vecchio africano, camminare sulle sue esili gambe, nei boschi francesi con uno zaino in spalla e un bastone per sorreggere la sua magrezza; talmente alto e talmente magro che ricorda i fusti di quegl’olmi che lui stesso, guardia forestale, cura e protegge; il signor Ousmane, due metri d’altezza e una testa tutta treccine, è un padre ieratico, e anche il suo ragazzo (che ha lasciato a soli 6 anni in Africa con la madre) è scomparso. E anche lui dopo la preghiera mattutina rivolto a La Mecca e dopo aver udito le terribili notizie che provengono da Londra da un televisorino di una camera d’hotel, si getta nella “fiumana”.
Stranamente e misteriosamente i due sono convogliati e rapiti dal quel fiume londinese di arabi, pakistani, britannici, uomini e donne di colore, di tutte le razze e condizioni, religioni e credenze. Un fiume che rende la loro paura, la loro diffidenze e il loro disorientamento, la paura e la diffidenza di tutti.
Ma l’incontro è inevitabile quando si scopre che i due ragazzi prendevano insieme lezioni di arabo alla moschea; vedendosi comparire “la sua bambina”in foto, abbracciata al giovane africano, la signora Sommers è ancor più presa dal panico; e ci metterà parecchio ad accettare il fatto che il signor Ousmane vive la sua stessa angoscia e disperazione (lui che di suo figlio Alì non sapeva nulla, lei che altrettanto scopre di non sapere nulla della sua Jane). E le paure e i pregiudizi del nostro tempo si insinuano ancora di più nella donna che non può credere a questa storia tra bianchi/protestanti e musulmani (un clichè ormai abbandonato da tempo) e del padre del ragazzo che teme che il figlio sia coinvolto nell’organizzazione degli attentati (cosa altro possono mai fare giovani attivisti islamici nelle nazioni occidentali?).
Eppure le due persone, vittime degli stereotipi del nostro secolo, davanti al dolore, davanti all’amore, non sanno spiegarsi cosa li ha avvicinati.
Aldilà dei sentimentalismi che una situazione tragica del genere potrebbe produrre, ciò che emerge è che anche il dramma assoluto della perdita di un figlio trova ciò che fa crescere la speranza.
Con questo London River l’autore di Indigens e di Hors-la-loi ci ha portato un commovente e condivisibile manifesto del multiculturalismo.
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